New York City, 1 novembre 2015
Un sentiero nudo, nella folta macchia di colori autunnali. A loro volta, tutte le sfumature del giallo e del marrone separano nettamente Central Park dagli edifici che l’assediano. Palazzi come questo sulla 75esima dove vivo e da dove assisto alla maratona quando sono a New York.
In piedi davanti alla grande vetrata del mio appartamento, sorseggio un caffè. Posso seguire chiaramente l’arrivo della corsa, da qui. Ho già visto sfilare i primi che hanno tagliato il traguardo. Ora arriva il grosso dei partecipanti, il fiume di gente che sfocia all’arrivo. Un fiume compatto, ben staccato dai migliori tempi dei primi. Un insieme che lo sforzo fa oscillare come uno sciame. Un banco di corpi sudati e boccheggianti. Una mandria esausta. Una moltitudine.
Intorno a me, i pezzi minimal del mio mobilio. Il gioco di simmetrie fra le lampade da terra e l’orizzontalità del lungo divano. E i quadri che ho acquistato negli anni. L’arte concettuale di Fontana, il paesaggio di Fragonard. La neve dell’acquerello di Kabakov. La serigrafia numerata della prima serie del Mulino di Escher. Mi dà un certo piacere, essere circondato da queste opere e osservare gli sforzi degli uomini in scarpe da ginnastica laggiù, fra due ali di pubblico.
Hanno qualcosa di classico nella loro insensatezza. Quegli uomini non vinceranno mai, lo sanno, eppure ciascuno di loro continua a correre. Quarantadue chilometri. Come Sisifo sul monte spinge una pietra che rotola sempre indietro, così questa massa spinge i piedi in un percorso che non li fa avanzare davvero. Uno sforzo assurdo, un’inutile tensione verso qualcosa di irraggiungibile. Ed è proprio così che io, dieci piani sopra il livello stradale, vedo il mondo.
Io, l’uomo più potente del board, nella grande banca. L’uomo che tutto osserva dall’alto e che dal basso non si può distinguere. Io, che muovo truppe inconsapevoli in guerre invisibili, motore immobile dell’oggi.
Io, Derek Morgan.
“Uno sforzo assurdo, un’inutile tensione verso qualcosa di irraggiungibile. Ed è proprio così che io, dieci piani sopra il livello stradale, vedo il mondo”
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Da quassù, guardo arrancare le patetiche formiche in pettorina. Come se fossero personaggi di un romanzo, come se io fossi l’autore che dall’ultima pagina guarda le loro peripezie. Dalla privilegiata posizione al termine ultimo del tempo della storia, e della Storia. Con i polpastrelli della mano colpisco leggermente la tazza, quasi facessi una scala al pianoforte.
Le distanze giù in basso, incolmabili, mi ricordano altre distanze, altre cifre, altri abissi. Come quello slogan che oppone l’1% dell’élite proprietaria del pianeta al 99% del genere umano. Il 99% di “chi sta sotto”, come dice un tribuno spagnolo coi capelli troppo lunghi. Quest’asimmetria, questo rapporto fra la minoranza e il resto, fra l’alto e il basso, ha alimentato immagini di ribellione, versato fiumi d’inchiostro, ispirato la giaculatoria contro le diseguaglianze sociali, animato le voci dei fieri oppositori dello stato di cose presente. Laggiù al traguardo della maratona, qualcuno solleva le braccia al cielo, qualcuno non ne ha la forza.
Contro quell’1% si sono mossi quelli che hanno occupato Zuccotti Park e quanti in Europa hanno combattuto le politiche di austerità. Contro quell’1%, per denunciare l’iniquità, un intellettuale francese ha scritto centinaia di pagine. Con disprezzo, chiamano quell’1% il “partito di Wall Street”. Mi riempio la tazza di caffè.
“Non esiste possibile, l’unico che può aversi è il reale. Non esistono altri mondi possibili, l’unico è quello garantito dall’1%. Oltre i confini della realtà, c’è solo catastrofe e rovina”.
Questi che parlano del 99% sono come i personaggi di Beckett: giocano con il possibile, senza attuarlo. Anche il papa adesso parla di sovversione delle moltitudini. Neanche si rendono conto di cos’ha significato trovare la rotta nella tempesta perfetta, alcuni anni fa. A tu per tu con l’abisso del Great Crash, nel 2007, quando tremarono le piazze finanziarie dell’Occidente.
Certo che abbiamo pilotato risorse pubbliche per salvare le banche. Certo che abbiamo contribuito a destabilizzare i bilanci degli Stati in Europa. Certo che abbiamo aumentato la ricchezza di chi era già ricco, per evitare la definitiva implosione sociale.
Abbiamo evitato la “barbarie”, come avrebbe detto qualcuno. E l’abbiamo fatto perché non c’era altra scelta.
È stata la cura brutale per una malattia acuta. Era l’unico modo di uscirne. Normale che ci siano stati danni collaterali, lividi da assorbire. Osservo come si danno da fare gli uomini dell’organizzazione per far defluire i maratoneti. Osservo il pubblico che lascia Central Park.
Le politiche monetarie, i QE, sono stati farmaci potenti. Ma in greco “farmaco” significa anche “veleno”. E il veleno dev’essere metabolizzato, altrimenti uccide. Per questo la liquidità immessa doveva depositarsi da qualche parte, nell’organismo. E noi abbiamo scelto i ricchi, quell’1%. Perché lì non avrebbe fatto danni. L’accumulazione di ricchezza è “innocua”: non produce inflazione, non sposta equilibri, stimola una crescita “sana”. E questo è l’unico, vero sviluppo possibile, quello che tiene in scacco le masse, conservando un equilibrio miracoloso.
Non esiste possibile, l’unico che può aversi è il reale. Non esistono altri mondi possibili, l’unico è quello garantito dall’1%. Oltre i confini della realtà, c’è solo catastrofe e rovina.
Ecco perché nel qui e ora che modelliamo non c’è futuro, non c’è movimento, non c’è entropia. Solo un eterno inverno che conserva la civiltà sotto una coltre di gelo. L’unica esistenza ancora concessa all’Occidente.