Nella rete dei vampiri

I crediti deteriorati, le vecchie banche, chi le sostituirà. E una finanza sempre più affamata e “politica”. Un nuovo racconto, con i personaggi de “I diavoli” di Guido Brera

Nessuna guida turistica dice che il “Berkeley” è stato per vent’anni il quartier generale di Derek Morgan. «Nel cuore di Knightsbridge, l’hotel di lusso “Berkeley” ha deliziato per oltre cento anni i suoi ospiti con un’atmosfera accogliente e il gusto per lo stile raffinato che oggi coniuga elementi fashion e recupero delle architetture originali»: ecco cosa scrivono.

Invece è lì che l’Americano ha vissuto. Ed è nella Blue Room – l’elegante sala monocromatica progettata dall’archistar David Collins – che ha tenuto i suoi incontri confidenziali con clienti selezionati ed esponenti governativi, consulenti d’alto profilo e collaboratori di primo piano. Lavoravamo insieme, allora.

Cammino sul marciapiedi. Sono a un paio di miglia dal “Birkbeck” College, abbastanza per non incrociare i miei studenti e sentirmi chiamare “professor Wade”.

“Al Berkeley giovedì per colazione” diceva l’sms che ho ricevuto ieri sera. La sigla alla fine del testo era “BL”.

Bruno Livraghi, il Raider. Il giovane italiano spregiudicato, il fanatico del profitto, l’uomo di punta di un importante hedge fund con doppia sede: Londra e New York.

Non so a cosa devo l’invito. Non ci siamo mai frequentati, anche se abbiamo diverse conoscenze in comune e perfino qualche amico. Conoscenze e amicizie di un tempo andato, quando avevo provato a cambiare vita e lavoravo nella City, come strategist della grande banca. La banca di Derek Morgan.

Varco la soglia della Blue Room del Berkeley. Di colpo, sono circondato dalle mille declinazioni di un solo colore. Dall’azzurro al turchese, dal blu notte al celeste.

L’istinto mi costringe a guardare verso il tavolo nell’angolo. Quello che per due decenni è stato il tavolo di Derek. E nella sagoma in giacca e camicia bianca, con la cravatta scura e la postura dritta senza incertezze, mi sembra di riconoscere l’Americano. Ma è solo per un attimo, prima di mettere a fuoco il profilo asciutto e spigoloso, i capelli ricci di Livraghi.

Non c’è molta gente. Mi avvicino al tavolo mentre vedo Bruno alzarsi, sotto uno dei due abat-jour rossi, speculari sui due lati della stanza: gli unici elementi che davvero rompono il dominio cromatico. «Ciao, Bruno.»

«Philip…» dice, e con un cenno indica la poltroncina azzurra di fronte alla sua. Mi siedo, in qualche modo sollevato dal fatto che non ha usato il diminutivo, “Phil”. Non c’è quella confidenza, ma avrebbe potuto prendersela.

Arriva un cameriere. Chiedo un latte caldo. Bruno ordina un bianco d’uovo. L’ordinazione esclusiva di Derek… Per vent’anni ha mangiato bianco d’uovo. “È leggero, e altamente proteico” amava dire. Mai, nemmeno una volta, ha considerato che così buttava la parte migliore, il tuorlo. Derek Morgan può mettere in conto qualsiasi cosa, pur di centrare il proprio obiettivo. E adesso Bruno fa la stessa ordinazione. Vuole farmi capire qualcosa, oppure è un caso.

«Conosci questo posto?» La domanda mi strappa al filo di pensieri e ricordi. Sono distratto, mentre annuisco. Penso a Derek, in questa sala del Berkeley abbiamo conversato di tanto in tanto. «Ci venivo qualche volta» dico. «Con un amico.» Finisco la frase con una mezza esitazione. Incrocio lo sguardo di Bruno, e mi torna in mente la sua abilità di leggere il linguaggio del corpo.

Mi sembra che ostenti un’aria furba, mentre sorride. Allora cambio tono: «Perché hai voluto vedermi?».

Guarda una poltroncina vuota, al tavolo accanto. «Niente di particolare» dice.

«È difficile crederci.»

«Invece dovresti. Il momento è favorevole… Non cerco niente se non buona compagnia.»

«Favorevole…» ripeto con ironia. «Dipende dai punti di vista.» Distolgo lo sguardo e faccio posto al cameriere, che è arrivato col vassoio.

«Di solito considero il mio» sbuffa Bruno, divertito.

Di fronte all’Italiano, viene servito un piatto con una gelatina lattiginosa adagiata sopra. Di fronte a me, il bicchiere di latte caldo.

Bruno impugna la forchetta e la tiene sospesa. «Col lavoro che faccio, è difficile considerare altre prospettive.»

Stringo le dita intorno al bicchiere, avverto il contatto rassicurante con la superficie calda. «Comunque ci andrei piano. Da un po’ di tempo c’è volatilità sui mercati. Umori e reazioni di pancia sono sempre imprevedibili, lo sai.»

Lui affonda la forchetta nel bianco d’uovo, fa una smorfia ironica: «Grazie per il consiglio, Philip. Ma il mio mestiere è proprio spostarmi sulla curva del rischio». Prende un boccone, deglutisce. «E per il momento non posso lamentarmi.»

Socchiudo gli occhi mentre lo guardo mangiare. Per lui il rischio è ancora legato all’oscillazione di variabili numeriche sulle piazze borsistiche. Per Derek, invece, il rischio sono diventate le variabili umane, anomalie che possono sovvertire un quadro di controllo planetario. In apparenza giocano la stessa partita, ma per Bruno il gioco smette alla fine di ogni trade, mentre Derek sa collegare movimenti complessi, e per lui la posta è politica.

«Certi investimenti convengono a tutti: a noi, alle banche, alla politica…» dice Livraghi.

E io capisco. L’sms, il Berkeley, questo preambolo. Capisco, finalmente.

Prendo un sorso di latte e rimetto il bicchiere sul tavolo. «Dimentichi qualcuno.»

«Non mi sembra.» Scuote la testa, posando la forchetta sul bordo del piatto. «Se ci fai caso, il mercato degli NPL è come il lavaggio del sangue…. Ripulisce il sistema.»

Ecco. L’ha pronunciata, la formula magica. La sigla che racchiude uno dei giochi di prestigio più efficaci dell’alta finanza. NPL. Non performing loans. L’ha detto.

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