Sabato, 14 novembre.
Paura.
Il virus si diffonde per contagio. Diventa terrore e panico.
Paura che da Parigi si espande, come un’infezione. Lo stadio, alcuni ristoranti, una sala concerto. Le espressioni del loisir occidentale sotto attacco. Un venerdì sera, otto o nove terroristi, più di cento persone cancellate dal mondo.
Paura, l’undici settembre d’Europa.
* * *
Adesso parleranno di “guerra”.
Cammino su un marciapiede a Midtown Manhattan, New York City.
Io la conosco, la guerra. Io ero sul campo, all’inizio del 1991, quando Bush Senior aveva deciso di combattere l’Iraq del vecchio alleato Hussein. Ventiquattro anni fa. Pozzi di petrolio in fiamme, colonne di prigionieri, la sabbia del deserto.
Io la conosco, la guerra. E quand’è finita, ho continuato a combattere cambiando armi. Perché esistono tanti tipi di guerra, non ce n’è uno solo. Anche le parole sono cambiate. E oggi “Nuovo Ordine Mondiale” è una formula vuota.
L’obiettivo, invece, è rimasto lo stesso. La causa, l’idea, è sempre quella: garantire e conservare la superiorità dell’Occidente. E adesso la mia guerra è un conflitto invisibile sulle sequenze alfanumeriche degli scambi finanziari.
Dicono che i mercati non si vedono, che le transazioni sono virtuali, che la finanza è immateriale. Ma sbagliano. Niente è più reale di quell’invisibilità. Ed è lì che operano quelli come me. Invisibili allo stesso modo. Perché non si vedono i gradi che mi hanno portato la fama di generale, ma ci sono. E il nome Derek William Morgan può dire poco, ma gli effetti delle mie manovre sono sulla bocca di tutti.
Entro nel grande atrio di un grattacielo. Non esiste un unico tipo di guerra. Quella che combatte Daesh è asimmetrica: scompone la linea del fronte, lo moltiplica, lo evoca in qualsiasi luogo dell’Occidente. In ogni città, in ogni strada. È l’essenza stessa del terrore: imprevedibile, improvviso. Niente e nessuno può trovare riparo dal panico. È come un’epidemia. Raggiungo l’ascensore.
Quella mattina. Quattordici anni fa, un giorno di settembre. Ero a Londra, al telefono, nel mio ufficio della grande banca. La CNN muta sullo schermo ultrapiatto. Immagini, e notizie che scorrono in pancia.
Alcuni minuti prima, un aereo si era schiantato contro la Torre Nord del World Trade Center, a New York. Un incidente, avevo pensato. Un incidente orribile. Poi la linea era caduta, e il silenzio aveva spezzato la comunicazione. Ho alzato la testa. In quel momento la CNN dava le immagini di un altro aereo che colpiva la Torre Sud. È allora che ho percepito la paura, il terrore, il panico. Per una volta ho avvertito l’orrore. Sentivo le gambe tremare in balìa delle vertigini, le mani gelate, i palmi sudati. E ho guardato il telefono sul tavolo. L’uomo con cui stavo parlando era nel suo ufficio, al 54esimo piano della Torre Sud, nel World Trade Center.
* * *
Sulla pulsantiera dell’ascensore manca il numero 13. Inserisco la chiave nella serratura, la cabina parte senza un rumore. E come io ho avuto paura, terrore, panico, così il giorno dopo il contagio si era diffuso. I mercati erano crollati nel profondo rosso. Mi schiarisco la voce. L’ascensore rallenta.
Ho una guerra da combattere e un nemico da sconfiggere: la paura, il terrore, il panico. Il mio compito è bloccare il contagio.
Tredicesimo piano. L’ascensore si apre sul lato opposto a quello dove sono entrato. Mi accoglie una grande stanza, percorsa da lunghe vetrate che affacciano su New York. Un tavolo smisurato, di forma triangolare, occupa quasi per intero l’ambiente. Questo è il Tredicesimo piano. Il luogo dove quelli come me si riuniscono per plasmare i destini del mondo.
Intorno al tavolo c’è un uomo della Federal Reserve, funzionari governativi, consulenti del Fmi, lobbisti che hanno buone entrature al Tesoro, a Washington DC. Sui loro volti distinguo i segni della malattia, il contagio che si diffonde, l’avanzare della paura. Distinguo lo scontro interiore, la fatica di controllarsi. Le espressioni di finto distacco, la freddezza ostentata. Non c’è bisogno di conoscere il linguaggio del corpo. Questi uomini sono spaventati, com’ero spaventato io il pomeriggio di 9/11. Come sono spaventati – adesso – i grandi investitori: quelli che lunedì mattina, all’apertura dei mercati, potranno vendere come se non ci fosse un domani. Quelli che semineranno l’epidemia come untori, quelli che possono rendere ancora più definitiva la vittoria dei terroristi.
C’è una guerra da combattere.
«Signori», comincio a parlare, «cos’è successo dopo l’Undici settembre, lo ricordiamo tutti». Abbraccio con lo sguardo l’intera stanza. «La chiusura di Wall Street… Giorni lunghissimi che sembravano non passare più. E poi la flessione inarrestabile. Il passato lo ricordiamo tutti». Poggio le dita sul bordo del tavolo, le faccio flettere.
«Esistono variabili umane che neppure noi possiamo ridurre e comprendere. Non possiamo impedire che avvengano fatti come quelli di venerdì notte, a Parigi». Afferro il bicchiere che ho davanti, lo stringo. «Non sappiamo cosa accadrà, ma possiamo impedire che questi fatti esistano sui mercati. Che i listini affondino sotto i colpi del terrore». Per un istante fisso l’orlo del bicchiere, poi alzo il tono di un’ottava: «Coi mercati abbiamo cambiato governi, dettato politiche, abbiamo fatto perfino rivoluzioni. E allora io vi dico…» Indugio sulle ultime due parole e le ripeto: «Vi dico che i mercati resisteranno alla paura». Rivolgo lo sguardo all’uomo della Fed. «Pensano ancora che i mercati siano uno specchio, che riflettano semplicemente il reale. Sbagliano. Pensano che, della paura, siano un semplice indicatore. Sbagliano.»
Faccio una pausa, riempio d’acqua il bicchiere. E intanto penso che sbagliano perché ignorano la natura politica della finanza, sbagliano perché non ne colgono l’ermetica impermeabilità a fattori esogeni. Come una camera perfettamente stagna.