Operaio metalmeccanico, una laurea, e la tessera del sindacato nel taschino. In molti territori del Nord Italia, la quota di operai stranieri iscritti alla Fiom supera il 20% per cento. Tutti più istruiti dei colleghi italiani, ma con inquadramenti più bassi. Anche nel sindacato stesso. Secondo l’indagine “Scopri la differenza”, condotta dalla Fiom, quasi mai le alte percentuali di tessere sottoscritte dagli immigrati in un territorio corrispondono a una presenza altrettanto forte nell’organizzazione sindacale e negli organismi dirigenti Fiom, come delegati nelle Rsu, componenti dei direttivi, funzionari e ancora meno nelle segreterie.
Tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, nelle fabbriche siderurgiche, nelle fonderie e nella carpenteria pesante, gli operai stranieri sono spesso la maggioranza. Si vede dalle tessere della Fiom. A Treviso gli stranieri iscritti sono il 35 per cento. In Val Camonica il 22%, a Mantova quasi del 19 per cento. Tra loro, oltre il 50% ha un titolo di studio superiore al diploma, e il 14% ha una laurea. Tra gli italiani questa percentuale si riduce allo 0,4 per cento. Eppure gli immigrati sono quasi tutti inquadrati nei livelli più bassi della catena di montaggio. Una tipicità italiana, visto che nel nostro Paese più di quattro stranieri su dieci sono impiegati in mansioni che richiedono competenze inferiori rispetto al titolo di studio. Con salari più bassi, orari e turni più faticosi. E il sottoinquadramento spesso è costante, indipendentemente dal tempo di permanenza in Italia e dall’anzianità lavorativa.
Quasi mai le alte percentuali di tessere sottoscritte dagli immigrati in un territorio corrispondono a una presenza altrettanto forte nell’organizzazione sindacale e negli organismi dirigenti Fiom
Ma il sindacato, in alcuni casi, può anche diventare uno strumento per far emergere i più istruiti. Eliana Como, dell’ufficio studi della Fiom, ha intervistato 35 operai stranieri eletti come delegati della Fiom. Di questi, 12 sono laureati; gli altri erano iscritti all’università nei Paesi di provenienza, pensavano di finire una volta arrivati in Italia, ma poi non ci sono riusciti. Tutti parlano perfettamente l’italiano. Molti di loro conoscono anche altre due o tre lingue straniere. Trovare competenze simili tra gli operati italiani è una rarità.
«Sono operaio alla catena di montaggio. In Tunisia, mi sono laureato in storia. Ho ho un po’ di rammarico, sinceramente. Sono rimasto per due anni disoccupato. Lì lavoravi solo se pagavi il pizzo a qualcuno. Mi sono detto che piuttosto andavo a fare il muratore in Francia, in Italia o in qualsiasi posto. Sinceramente, mentre dicevo così, pensavo in realtà che sarei riuscito a proseguire i miei studi», racconta uno degli intervistati. «Quando entrai a lavorare dove sono ora, al colloquio il direttore del personale mi chiese “da quanto è qui? Parla bene l’italiano!”. Gli risposi che più o meno è la mia lingua anche se non l’ho mai studiata e che parlo anche il francese e l’inglese. Lui mi disse ”peccato che sei qui per fare l’operaio!”».
«Quando entrai a lavorare dove sono ora, al colloquio il direttore del personale mi chiese “da quanto è qui? Parla bene l’italiano!”. Gli risposi che più o meno è la mia lingua anche se non l’ho mai studiata e che parlo anche il francese e l’inglese. Lui mi disse ”peccato che sei qui per fare l’operaio!”»
Poi è arrivato il sindacato. Molti dei delegati Fiom di origine straniera sono stati spinti a candidarsi per la Rsu dai colleghi, italiani e immigrati. Ma pochi di loro si sentono «i delegati degli stranieri». Anche se spesso sono i colleghi stranieri a considerarli i «loro delegati», prendendoli come punto di riferimento per questioni burocratiche, dal permesso di soggiorno ai ricongiungimenti familiari, che «solo loro possono capire».
Impegnati dentro e fuori la fabbrica, gli intervistati dalla Fiom all’impegno sindacale uniscono quasi sempre «anche a un’ampia esperienza nelle associazioni di volontariato, politiche o religiose del territorio in cui vivono», spiega Eliana Como. «E in queste associazioni ricoprono cariche di alta responsabilità e di grande riconoscimento: di solito sono presidenti o vicepresidenti». Tutte queste attività, sindacato compreso, «sono parti indispensabili della loro vita».
Ma la struttura del sindacato per uno straniero resta difficile da scalare. Le percentuali di iscritti non si riflettono negli organi direttivi. Anche laddove si supera il 20%, nel direttivo territoriale si trovano al massimo tre o quattro componenti stranieri. A Milano, su 88 membri del direttivo Fiom, solo due sono stranieri. A Treviso, con il 35% di iscritti stranieri, nel direttivo ne ritroviamo 9 su 70 componenti. A Bologna sono solo sei su 110.
Anche laddove si supera il 20%, nel direttivo territoriale si trovano al massimo tre o quattro componenti stranieri. A Milano, su 88 membri del direttivo Fiom, solo due sono stranieri. A Treviso, con il 35% di iscritti stranieri, nel direttivo ne ritroviamo 9 su 70 componenti
Ma quando uno straniero riesce a fare carriera nel sindacato, anche in questo caso è più istruito dei colleghi italiani. Tra i delegati, tre su quattro hanno una laurea contro il 50% degli italiani. Nel gruppo dirigente, la percentuale di laureati stranieri è doppia rispetto agli italiani.
Dalle interviste effettuate dalla Fiom è emerso però anche che nel sindacato esistono pregiudizi e discriminazioni. «Qualcuno se lo spiega dicendo», racconta Eliana Como, «che anche la nostra organizzazione è fatta di persone che, aldilà della tessera sindacale, vivono nella stessa società, con gli stessi pregiudizi e gli stessi retaggi di tutti gli altri e se nella società esistono i luoghi comuni, i pregiudizi, le discriminazioni. È difficile pensare che il sindacato, persino la Cgil e la Fiom, ne siano immuni».
Ma quando uno straniero riesce a fare carriera nel sindacato, anche in questo caso è più istruito dei colleghi italiani. Tra i delegati, tre su quattro hanno una laurea contro il 50% degli italiani. Nel gruppo dirigente, la percentuale di laureati stranieri è doppia rispetto agli italiani