Aids, “la notizia è che i nuovi casi non stanno diminuendo”

Oggi è una malattia cronica, curabile, esistono test all’avanguardia che permettono di distinguere l’Hiv1 dall’Hiv2 e individuare subito l’infezione, eppure i nuovi casi non diminuiscono ma restano stabili

Era il 1981 quando i ricercatori americani si imbatterono per la prima volta in quella malattia che sarebbe stata poi ribattezzata con il nome di sindrome da immunodeficienza acquisita, Aids. Al tempo aveva colpito un gruppo di giovani americani omosessuali tutti affetti da polmonite da Pneumocystis carinii e un raro tumore dei vasi sanguigni, il Sarcoma di Kaposi.

Al di là di questi elementi in comune però, il mondo scientifico era ancora ben lontano dal capire di cosa si trattasse. Alla fine dello stesso anno la malattia era arrivata anche in Europa, in Inghilterra, e si erano verificati i primi casi anche tra gli eterosessuali, ma la malattia non aveva ancora un nome. Anche perché era ancora poco chiaro quali fossero le vie di trasmissione del contagio, quali le cause scatenanti e come funzionasse. Grid (Gay-related immune deficiency), fu il nome che iniziò a comparire sulla carta stampata in quel periodo, e anche in riviste scientifiche come The Lancet, per identificare la malattia. Solo nel 1983 venne isolato il virus dell’immunodeficienza umana, Hiv, responsabile dell’infezione e della conseguente sindrome che di fatto indebolisce il sistema umanitario dell’individuo, rendendolo sensibile a patologie che normalmente non contrarrebbe.

Oggi 1 dicembre, come ogni anno ricorre la giornata mondiale dell’Aids, per ricordarci che questa malattia ancora non è scomparsa, fare il punto su terapia diagnosi e nuovi casi, ricordarci il terrore dei primi anni della sua comparsa. Da allora sono passati anni bui in cui i giovani di tutto il mondo morivano per questa malattia, senza speranza di cura. Anni di sperimentazioni di nuovi farmaci a cui i malati chiedevano di partecipare anche a costo di rischiare la vita, perché non avevano nulla da perdere. Anni di campagne di comunicazione in cui si ripeteva di fare attenzione ai rapporti non protetti, al contatto tra sangue, e ad altre via di contagio, come le siringhe abbandonate per strada. Trenta e più anni dopo molte cose sono cambiate. Di Aids, grazie alle nuove terapie antiretrovirali non si muore praticamente più, almeno nei paesi più sviluppati, ma in altri paesi come l’Africa la situazione è differente. E nonostante porre fine all’epidemia di Aids entro il 2030 sia uno degli obiettivi previsti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), in realtà siamo ancora lontani dal traguardo.

«Secondo il rapporto Unaids diffuso pochi giorni fa, il numero di persone in trattamento antiretrovirale è aumentato di 2,2 milioni rispetto all’anno precedente» spiega Stella Egidi, responsabile medico di Medici senza frontiere, Msf. «Ma gli obiettivi ambiziosi fissati a livello globale – come la fine dell’epidemia entro il 2030 – richiedono il superamento di diversi ostacoli che impediscono ancora a troppe persone di accedere alle cure o seguire il trattamento in maniera adeguata e continuativa». In paesi come Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan, la copertura del trattamento scende sotto il 25% –spiega Msf in un comunicato stampa – anche a causa dell’incapacità di garantire l’ultimo tratto della filiera, per cui i farmaci antiretrovirali sono disponibili nel paese ma non raggiungono gli ambulatori periferici a causa di procedure farraginose, sfide logistiche o la mancanza di risorse. Spesso inoltre i pazienti abbandonano il trattamento, che andrebbe fatto a vita, perché si riesce a seguirli in maniera adeguata. Inoltre il 45% dei 37 milioni di persone che convivono con l’Hiv non sa di essere affetto dal virus, primo passo essenziale per accedere ai farmaci antiretrovirali salvavita.

«Affinché i paesi possano mettere un maggior numero di persone sotto trattamento rapidamente, serve volontà politica e sostegno finanziario – conclude Egidi – in particolare per i paesi con una copertura limitata del trattamento per l’Hiv, che altrimenti rischiano di essere lasciati indietro». Secondo i dati raccolti dall’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e diffusi dall’Oms, nel 2014 in Europa si è registrato il più alto numero di nuovi casi di Hiv. Ben 142mila nuovi casi, un numero mai registrato dall’apparizione della malattia nel continente europeo, negli anni ottanta. La zona più colpita è l’Europa orientale, dove il numero di nuove diagnosi è più che raddoppiato negli ultimi dieci anni. L’Europa occidentale però resta abbastanza stabile. In Europa, come anche in Italia, sono aumentati i casi di trasmissione della malattia per via eterosessuale mentre la trasmissione per iniezione di droga resta stabile in Europa e addirittura in calo in Italia.

Nei paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo (See) due nuove infezioni su tre riguardano europei nativi, mentre gli individui nati all’estero, compresi i migranti, rappresentano solo un terzo delle diagnosi di Hiv. «Dal 2004, i tassi di nuove diagnosi sono più che raddoppiate in alcuni paesi dell’Ue e del See mentre altri hanno registrato una diminuzione del 25 per cento. Ma l’epidemia globale resta sostanzialmente invariata – spiega Andrea Ammon Acting Director presso l’ECDC – questo significa che la risposta dell’Unione europea e nel See all’Hiv non è stata abbastanza efficace da portare a una riduzione dell’epidemia negli ultimi dieci anni».

Nel 2014 in Italia sono state riportate 3695 nuove diagnosi di infezione da Hiv pari a 6,1 nuovi casi ogni 100.000 residenti, secondo i dati rilasciati dall’Istituto superiore di sanità. Incidenza che regala all’Italia il dodicesimo posto tra le nazioni dell’Unione Europea. «La notizia è che non c’è stato l’atteso trend di riduzione di nuovi casi – spiega a Linkiesta Maria Rosaria Capobianchi, Direttore del Laboratorio di virologia dell’Inmi Lazzaro Spallanzani e membro di Amcli, l’Associazione Microbiologi Clinici Italiani – con l’aumento delle informazioni, l’efficacia delle nuove terapie e un approccio più efficace e globale, ci si sarebbe aspettati una riduzione dell’incidenza, cioè dei nuovi casi, e invece il trend si mantiene stabile. È diminuito il trend nei tossicodipendenti ma a sfavore della popolazione eterosessuale dove è aumentato. In sostanza le due tendenze si compensano e fanno capire come i target delle campagne di comunicazione siano ora un po’ diversi rispetto al passato».

Senza dubbio oggi un ruolo non indifferente nel decorso della malattia lo hanno anche i test diagnostici. Se il test viene eseguito subito in quella che viene chiamata fase primaria, prima cioè che il sistema immunitario venga compromesso in maniera importante, le possibilità di avere un’aspettativa di vita quasi sovrapponibile a una persona non affetta dal virus dell’Hiv sono molto elevate. Oggi i test sono molto rapidi, danno risposta in pochi giorni, sono gratuiti, garantiscono l’anonimato e alcuni tipi possono anche “essere fatti in casa”. Durante la giornata mondiale dell’Aids saranno diverse le città dove si svolgeranno campagne e sarà possibile eseguire il test rapidamente.

«Oggi abbiamo a disposizione test diagnostici molto potenti – conclude Capobianchi – i più diffusi e raccomandati sono quelli di quarta generazione che permettono di vedere non solo gli anticorpi ma anche gli antigeni del virus. Il che permette di identificare anche i pazienti in fase primaria che non hanno ancora sviluppato gli anticorpi, quindi in una fase molto precoce della malattia. Siamo inoltre vicini ai test di quinta generazione, che saranno in grado di distinguere tra Hiv1 e Hiv2. Sono due infezioni che circolano in aree geografiche diverse. L’Hiv2 è diffuso soprattutto in Africa, trovarlo fuori è raro ma non impossibile, soprattutto con l’aumento dei movimenti migratori. Il profilo di risposta ai farmaci inoltre è un po’ diverso, e il tipo 2 ha anche una progressione clinica meno severa. È importante quindi poter distinguere tra i due. Ma soprattutto è importante fare il test subito e senza tabù, perché l’infezione non riguarda più solo alcune categorie della popolazione ma tutti».