Qualcuno abbaia in sottofondo. È Marley, il trovatello raccolto in Eritrea. Quando Giacomo Giovannini, 36 anni, e la moglie Lia Ferrario, 32, sono tornati in Italia, a Rozzano, hanno portato anche lui. Loro tre, (lui, lei e Marley) hanno lavorato per anni in posti lontani e difficili. Gaza, Tanzania, Marocco, per dirne alcuni. Giacomo e Lia sono operatori del terzo settore, con una lunga carriera al servizio di Ong internazionali. Finché a un certo punto hanno deciso di tornare a casa. «Dopo le Primavere arabe, il mondo si stava facendo troppo pericoloso. Abbiamo scelto di tornare dopo che un’amica è stata coinvolta in un attentato costato la vita a 92 persone».
«Lavorare nel terzo settore offre grosse abilità manageriali e organizzative. Ma molti ci considerano ancora missionari»
L’atterraggio sul suolo italiano non è dei più morbidi. Giacomo porta con sè una mole incredibile di skills. Durante i suoi dieci anni di esperienza, ha coordinato un progetto per la costruzione di una rete fognaria a Gaza e uno per un impianto di desalinizzazione. È stato per tre anni manager di tutti progetti di cooperazione italiani in Eritrea («avevo 30 anni, la crisi e il taglio di risorse mi hanno reso subito manager»). Ha partecipato al gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite per il controllo sul flusso di armi verso Somalia ed Eritrea. Ha avviato in Tunisia attività sindacali per far valere i diritti sociali dei lavoratori. Ma a differenza dei colleghi inglesi o francesi, tutto questo per un italiano che torna in patria perde valore. «Le imprese ci vedono come missionari, volontari, crocerossine. Non si capisce che lavorare nel terzo settore offre grosse abilità manageriali e organizzative, spendibili anche in azienda».
Giacomo tuttavia non si dà per vinto. Si iscrive a un master in Bocconi in Gestione delle imprese sociali (settore ancora al minimo in Italia), e mentre lavora a un progetto per Iscos e collabora con un incubatore di impresa, si unisce, insieme alla moglie Lia, alle attività della La Casa del Riuso. La mission è creare posti di lavoro a Rozzano, una delle periferie più disagiate di Milano, e ridare dignità alle persone. Come? Già, come.
«Tutti i costi sono calcolati a partire dalla possibilità di sostenere il costo del personale»
Prima che Lia e Giacomo rientrino in Italia, un gruppo di volontari per lo più pensionati, tra cui il papà di Lia, hanno iniziato a sgomberare soffitte e rivendere quel che trovano. Non lo fanno per soldi. I fondatori de La Casa del Riuso si accorgono subito che il loro impegno genera impatti sociali ed ambientali: riescono ad offrire mobilio a basso costo alle famiglie della zona, e aridurre gli sprechi. Quando la coppia torna dall’Eritrea, prende le redini e applica quanto appreso in anni di progetti di sviluppo nel terzo mondo. E la cosa inizia ad ingranare. Nascono sinergie con altre associazioni presenti sul territorio e si gettano le basi per un grosso sviluppo futuro. Addirittura Giacomo coinvolge nove compagni della Bocconi. E trasforma il business plan dell’Associazione nella tesi di fine master.
Si adotta innanzitutto una nuova logica di partenza. «Tutti i costi sono calcolati a partire dalla possibilità di sostenere il costo del personale. Per farlo devo aumentare il mio business, perché ogni persona mi genera un costo. Noi puntiamo nel best case scenario a assumere due persone all’anno. Nel worst case a prenderne una». Non lavoratori qualsiasi. Ma persone ad alto rischio di esclusione dal mercato del lavoro. Dallo sorso febbraio alla Casa del Riuso operano in una ventina. Ad oggi, con 50.000 euro di entrate e 70.000 euro di spese, La Casa del Riuso riesce ad offrire solo due contratti di lavoro a due rifugiati politici, due eritrei incaricati degli sgomberi. Ci sono però anche tre minori con pena sostitutiva in stage, alcuni ragazzi down e tanti pensionati volontari. Ma siamo solo agli inizi, ed è proprio in questi giorni che Giacomo sta ultimando il business plan con cui raccoglierà fondi e finanziamenti utili ad ampliare il progetto. Tra gli obiettivi centrali c’è il creare un’impresa con impatto sociale e ambientale positivo.
La Casa del Riuso introduce in Italia anche un concetto poco noto. Quello di Upcycling
«La potenzialità del progetto sta nel fatto che noi italiani abbiamo case piene di cose accumulate in modo seriale. Cose di cui prima o poi vorremo liberarci. E gli sgomberi costano. Noi offriamo questo servizio gratuitamente, o con sconti, se troviamo oggetti rivendibili o recuperabili». Il riciclo, spiega sempre Giovannini, diventerà tema chiave dei prossimi anni. Le ultime direttive dell’Unione Europea impongono il recupero del 65% di tutti i prodotti immessi sul mercato e dell’85% di quelli elettronici (i RAEE, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).
È per questo che la Casa del Riuso si sta muovendo per creare collaborazioni con i comuni e le rispettive piattaforme ecologiche. «Offrendo aiuto nel recupero di rifiuti, permettiamo ai municipi ad abbassare il costo di tali attività. Per noi invece si tratta di recuperare materia prima a costo zero».
Con l’arrivo di Giacomo e Lia, La Casa del Riuso introduce in Italia anche un concetto poco noto. Quello di Upcycling: «La fase successiva de recycling non è rimettere l’oggetto sul mercato tale e quale. Ma lo trasformo dandogli un valore molto più alto della partenza. Finora lo hanno fatto i nostri artigiani. A breve prenderà vita la partnership con gli architetti di Arcò, un gruppo specializzato nel ridare vita nuova agli oggetti cambiandogli la funzione: trasformare una sedia in una scala, fare un orologio da un disco rotto. Nel corso di un workshop insegneranno ai nostri artigiani come applicare la stessa tecnica». Si tratta di oggetti destinati a una fascia di pubblico medio alta, e che in questa fase sperimentale verranno venduti in un temporary shop all’Isola, «il quartiere vintage di Milano», nei giorni che precedono Natale. «Movimento Consumatori, una delle realtà che abbiamo contattato, ha dimostrato interesse nel progetto e ci ha offerto uno spazio che gestisce al numero 14 di via Guglielmo Pepe. Qui tra il 18 e il 20 dicembre venderemo i primi oggetti reinventati».
«Se sei un cittadino attivo, quando arrivi a Rozzano vuoi intervenire»
La casa del Riuso si ingrandisce giorno dopo giorno come una palla di neve in caduta libera. Ha introdotto servizi di riparazioni a prezzi calmierati per anziani con la pensione minima (fatti da artigiani volontari o appassionati del progetto) e sta contattando le imprese della zona che vogliono fare interventi di responsabilità sociale sul territorio. Come Leroy Merlin, che ha regalato alla Casa i vecchi mobili degli uffici in corso di ristrutturazione.
Giacomo ha in mente di attivare contatti con i produttori stessi di elettrodomestici. Immagina di poter riportare dai produttori vecchi prodotti ancora funzionanti recuperati durante gli sgomberi, chiedendo che vengano resi più efficienti e poi rivenduti a prezzi ribassati. «Un guadagno anche per le aziende produttrici che per legge sono responsabili del recupero di ogni elettrodomestico introdotto sul mercato, con costi per loro molti alti»
Mentre lavorava alla sua impresa sociale, Giacomo ha anche trovato un lavoro a tempo pieno con contratto indeterminato. Lavorerà per Junior Achievement, una Ong americana attiva dagli inizi del XX secolo ma arrivata da poco in Italia. Ha lo scopo di trasmettere educazione finanziaria ed economica alle nuove generazioni, insegnando ai più piccoli la gestione della paghetta, e accompagnando gli studenti delle superiori e universitari in veri e propri lanci di start up.
Una buona riforma del Terzo settore potrebbe sbloccare numerosi progetti e richiamare in patria le centinaia di operatori di Ong espatriati
«Se sei un cittadino attivo», dice Giovanni, «arrivi a Rozzano e vuoi intervenire». L’unico cruccio è trovare una normativa fiscale che si adatti all’impresa messa in atto. Al momento inesistente. «Ci rompiamo la testa per trovare una soluzione. Ma la situazione in Italia è terribile. È per questo che il terzo settore non decolla, sebbene ci sono opportunità enormi di generare lavoro e ricchezza.
La legge che regola le imprese sociali del 2006 ha dimostrato di non funzionare, perché impone un sacco di obblighi senza dare vantaggi fiscali a chi ha come obiettivo non il profitto ma la sostenibilità.
«In Italia non esiste una normativa fiscale adatta al terzo settore. Quella esistente impone solo obblighi senza offrire vantaggi. Ma così si blocca un potenziale enorme di sviluppo e ricchezza»
«In Italia si può essere Associazione solo se non commerci. Se vendi prodotti, anche senza guadagno, devi pagare le tasse come fossi una impresa normale. E così facciamo noi, nonostante ci stiamo investendo il nostro capitale senza tuttavia dividere gli utili. Ma non ha senso».
Giacomo attende come molti la Riforma del Terzo settore, che potrebbe sbloccare numerosi progetti e richiamare in patria le centinaia di operatori di Ong espatriati: se sono tutti come Giacomo, l’Italia verrebbe messa a nuovo con una buona operazione di upcycling nel giro di un paio di anni.