Elezioni in Spagna, comunque vada sarà un successo. Per Ciudadanos

Il partito di Albert Rivera sarà l'ago della bilancia, e lui si dice "pronto a dialogare con tutti", da destra a sinistra

Ultimi fuochi della campagna elettorale in Spagna. Il 20 dicembre è ormai alle porte e le forze politiche in campo affilano le armi per le battute finali. L’ultimo sondaggio, pubblicato giorni addietro da El Pais, ha confermato che la posizione di testa se l’aggiudicherebbe il Partido Popular di Mariano Rajoy col 28% dei suffragi. Vittoria “mutilata”, verrebbe da dire, sia per i 16 punti percentuali persi per strada dal 2011 ad oggi, sia perché questo risultato renderebbe impossibile la formazione di un governo monocolore.

A seguire i socialisti guidati dal giovane Pedro Sanchez, che si attesterebbero intorno al 21%, e i liberal-populisti di Ciudadanos, la formazione politica di Albert Rivera, inaspettata rivelazione di questa tornata elettorale, che potrebbe spuntare un rotondo 20%, diventando così il vero ago della bilancia per la formazione del nuovo governo. Una performance, quella di Ciudadanos, che penalizzerebbe maggiormente il partito di Pablo Iglesias, Podemos, dato adesso tra il 15 e il 16%, lontanissimo, perciò, dalle stime di alcuni mesi fa.

Se le urne restituissero questo scenario, ad ogni modo, il parlamento di Madrid potrebbe avere questa composizione: popolari tra i 120 e i 128 seggi, socialisti tra i 77 e gli 89, Ciudadanos tra i 63 e i 66, Podemos attorno ai 45, Izquierda Unida non più di 5. Un quadro, questo, che obbligherebbe il Pp a coalizzarsi con il movimento di Rivera per formare un governo, stante l’asticella della maggioranza a 176 seggi. A meno che quest’ultimo non intenda tentare un’operazione corsara, dando la sua disponibilità a formare una maggioranza di governo con le sinistre, sul modello portoghese. Ipotesi peregrina? Forse.

Se le urne restituissero lo scenario dei sondaggi, il Pp dovrebbe coalizzarsi col movimento di Rivera per formare un governo

Intanto, in questi ultimi giorni di campagna elettorale, il giovane leader di Ciudadanos ha ammesso che il suo movimento sarebbe pronto, sulle principali questioni in agenda, a dialogare con tutti, da destra a sinistra: «Potremmo trovare accordi con il Pp sulle riforme economiche e per difendere l’unità del Paese; con il Psoe su misure di protezione sociale; con Podemos sulla “rigenerazione democratica”». «Credo che sarebbe utile lavorare insieme per il bene della Spagna», le ha fatto eco, in un recente dibattito televisivo, il vicepresidente del governo Soraya Sáenz de Santamaría, espressione del Partito Popular. Ancora più esplicito, sul punto, Iglesias, leader di Podemos: «Sono fiducioso che con Rivera si possa raggiungere un accordo per affrontare la questione della “rigenerazione”, del rinnovamento della classe dirigente».

Che la situazione sia fluida, in ogni caso, e aperta a diversi scenari, Albert Rivera lo sa benissimo, tanto da azzardare un’ipotesi che ad alcuni protagonisti della politica spagnola, in primis Mariano Rajoy, avrà fatto, come minimo, rizzare i capelli. Ha ricordato che in Spagna vige una forma di governo di tipo parlamentare, ragion per cui, qualora il primo tentativo di formare una maggioranza andasse a vuoto, toccherebbe alle altre forze politiche prendere in mano il testimone. Dunque, potrebbe toccare anche a lui questa incombenza. In questo caso, ha fatto sapere che non disdegnerebbe l’ipotesi di guidare un nuovo esecutivo composto «sia da personalità indipendenti che da membri di altri partiti», per affrontare “insieme” le varie emergenze del Paese.

Rivera, insomma, punta al sorpasso sui socialisti, per piazzarsi al secondo posto e sperare nell’incarico di formare il governo da parte del Re Juan Carlos. Ipotesi vista come il fumo negli occhi dai socialisti, che, non a caso, in questo finale di campagna elettorale, stanno molto insistendo sul concetto di “voto utile”, a danno soprattutto di Podemos e della sinistra radicale. Proprio in risposta ad un duro attacco che gli aveva sferrato recentemente Iglesias, infatti, Pedro Sanchez lo scorso martedì sul punto è stato molto chiaro: «L’unica garanzia di cambiamento è il Psoe. Non votare socialista significa dare il proprio voto al presidente della disoccupazione e della corruzione, ovvero a Mariano Rajoy». Un concetto ribadito anche dall’ex premier Felipe González, entrato anche lui nei giorni scorsi a gamba tesa contro Podemos e il suo leader: «Come ci si può fidare di uno che è stato consulente di un governo come quello del Venezuela?». Lotta aperta, quindi, tra socialisti e Podemos, che in questi giorni se le stanno dando di santa ragione.

Il giovane leader di Ciudadanos ha ammesso che il suo movimento sarebbe pronto a dialogare con tutti, da destra a sinistra

E i contenuti? Sul versante economico e sociale, mentre i popolari difendono la propria riforma del mercato del lavoro e promettono meno tasse, sia i socialisti che la sinistra radicale insistono, con accenti diversi, sulla lotta alla precarietà e su una maggiore progressività delle imposte. Podemos e Isquerda Unida, nello specifico, propongono anche una riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali e una tassazione più dura sui grandi patrimoni, mentre Ciudadanos ha come cavallo di battaglia il contratto unico ed una riorganizzazione del mercato del lavoro sul modello del Job Act italiano.

Poi c’è il tema dell’unità del Paese, resosi più stringente dopo le elezioni in Catalogna. Su questo punto, si va dall’intransigenza del Partido Popular nella difesa dell’esistente alla proposta di Podemos e Isquerda Unida di far decidere ai cittadini, mediante un referendum, quale forma dovrà avere lo Stato spagnolo nei prossimi decenni. In mezzo, la soluzione “federalista” del Psoe e quella “funzionalista” di Ciudadanos, basata su una più razionale distribuzione delle competenze tra centro e autonomie.

Su tutti, nondimeno, c’è il grande tema del rinnovamento della politica e della sua classe dirigente, terreno su cui giocano la loro partita principalmente i “nuovi arrivati” di Podemos e Ciudadanos con il loro populismo anti-casta. Se si esclude il premier uscente, tuttavia, l’età media dei leader in campo, da Sanchez a Iglesias, da Rivera al giovanissimo Alberto Garzón di Isquerda Unida, è di 36 anni. Tutti e quattro, poi, vantano una solida cultura economica e giuridica e, ad eccezione di Rivera, provengono dal mondo accademico e della ricerca. E non è un fenomeno di sola leadership: il numero di giovani che occupano posizioni apicali nei rispettivi partiti è aumentato enormemente in Spagna negli ultimi tempi. A ben vedere, forse, la “rigenerazione democratica” da quelle parti è già a buon punto.

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