Gennaro Nunziante, l’altra metà di Zalone: ”Noi siamo l’anti satira”

Il regista e autore di “Quo vado?” e degli altri film zaloniani si racconta «Checco si propone come ipocrita, per questo ha successo. Papa Francesco? È l’unica figura che unisce tutti»

«I critici parlano dei film che avrebbero voluto vedere, non di quelli che hanno visto». Preciso, Gennaro Nunziante, regista dei film di Luca Medici, in arte Checco Zalone (compreso il quarto e ultimo, Quo vado?, in uscita il primo gennaio, sull’intoccabile, italianissimo tema del posto fisso) e, prima di quelli, geniale cervello delle sit com di Radio Norba che i ragazzi terroni degli anni ‘90 guardavano più di Beverly Hills e rincoglionenti sceneggiati Rai per giovani vecchi. Gli zaloniani della prima ora (pochi) sanno bene che Nunziante è un autor comico serio, garbato e colto; quelli dell’ultima ora (cioè tutti: negli ultimi giorni sembra che non ci si possa non dire zaloniani) se lo contendono per evidenziare che lui è l’intellettuale che non ti aspetti. Nunziante, però, dentro quell’ “intellettuale” ci sta strettino, trattandosi di un’etichetta assolutoria con cui la critica mostra deferenza a un successo che impone, ormai, un ragionamento, a meno che non si voglia dichiarare che gli italiani sono coglioni, come fece qualcuno.

Nessuno osa più accusarvi di fare cinema spazzatura.

Quando ci dicevano che eravamo trash confondevano i film con quello che Luca faceva a Zelig e, peggio, con lo stereotipo del comico del Sud, quello che per anni è stato il caratterista cui spettavano la farsa e il colore. Spesso, la critica ha attaccato l’uomo Luca Medici, anziché l’artista. Paul Valery diceva che l’intelletto deve occuparsi di opere e non di persone: la nostra critica infrange questa regola fondamentale. Nei nostri film non c’è nessuna volgarità, nulla di cui io mi possa vergognare. Per esempio, abbiamo sempre trattato il femminile in modo estremamente diverso rispetto alla media italiana: tutte le donne dei nostri lavori hanno una propria identità forte, una realizzazione sociale e, nella storia, incidono nel cambiamento di fisionomia del personaggio.

Ma che cos’è, di preciso, il trash?

Tutto ciò che è ovviamente comico. La battuta e l’intreccio che ti aspetti, i canoni soliti.

Il lieto fine è uno di quei canoni soliti o solo un clichè necessario e, quindi, condonabile?

Il finale di un film che sia lieto senza fondamento è buonismo. Una balla consolatoria. Non puoi dire a un malato terminale che guarirà, se sai benissimo che sta per morire. In Quo Vado? c’è un colpo di scena che ci è valso qualche accusa di buonismo: la nostra intenzione, invece, era quella di mostrare che si cambia in meglio nell’incontro con l’altro, perché l’altro rappresenta necessariamente una possibilità di miglioramento, implicando uno scontro con sé stessi. Quando un lieto fine è l’esito di questa dialettica, diventa costruttivo, non consolatorio. Magari non è comico, ma di certo fa bene.

Noi non propagandiamo nulla: non una morale, non un insegnamento. Non educhiamo nessuno: il cinema ha educato me alla relazione con gli altri, non certo al proselitismo

Cosa non è ovviamente comico, invece?

Solitamente, si ritiene che la materia comica sia la sola che spetta a chi voglia fare commedia. Nel nostro caso è la parte meno interessante.

E qual è la vostra novità invece?

Non fare parodia, gag, satira, mezzi propri più che altro del moralismo: la comicità regge quando ha un senso ben incastonato in una storia che racconta il contemporaneo e, più ancora, che parte da una logica di preveggenza. Raccontare il presente deve servire a capire dove sta andando l’uomo: si può fare solo guardandosi intorno, studiando. Si tratta di un lavoro che necessita un lungo tempo di letargo, in cui è necessario sparire dalla circolazione e concentrarsi.

In questo, vi aiuta essere rimasti a Bari?

Credo di sì. Roma e Milano funzionano a parrocchiette. È facile finire con lo scrivere film che le compiacciano. Noi, per fortuna, non dobbiamo dar conto a nessuno.

Certo, voi avete il pubblico.

Il pubblico non lo gestisci dai salotti. Per anni siamo stati trattati con profonda ostilità dalla critica militante di sinistra – io sono di estrema sinistra, peraltro -, la stessa che per anni, nel nostro paese, ha sempre e solo sorvegliato e punito chiunque non fosse incastrabile nel cinema autoriale, un carrozzone che va avanti da solo e da solo fa la sua propaganda. Noi non propagandiamo nulla: non una morale, non un insegnamento. Non educhiamo nessuno: il cinema ha educato me alla relazione con gli altri, non certo al proselitismo. Tento, tentiamo solo di mostrare qualcosa di cui sono, siamo profondamente convinti: il senso della vita è la gioia.

Il successo dà la gioia?

Intendiamoci: mi fa più che piacere che i film riscuotano tanto consenso, divertano, facciano ridere, ma per quanto mi riguarda, su questa terra, i momenti di contentezza sono stati sempre slegati dall’ambito professionale. La felicità, invece, non appartiene a questo mondo: le rare volte che l’ho incontrata, è successo grazie alla fede. Sono un padre di famiglia: faccio in cinema perché mi diverte e, quando finisco, torno a fare il padre di famiglia.

Lei è profondamente religioso. Una volta ha detto che Berlusconi è stato mandato a casa da Papa Francesco.

Lo ribadisco. Papa Francesco è stato il primo a porsi fuori dalla dialettica pro/anti B, richiamando a valori diversi, non nuovi ma da riscoprire. È il solo uomo capace di richiamare all’unità un paese irrisolto come il nostro. I giovani che governano e i giovani all’opposizione (quelli del Movimento5stelle) stanno dimostrandosi più vecchi dei vecchi: non sono capaci di perseguire una riconciliazione, nemmeno la contemplano come obiettivo.

Non ho mai cercato, né voluto la carta bianca che, peraltro, non mi è mai stata data. Il cinema è un lavoro collettivo

Lei e Medici, però, unite eccome le persone: Quo Vadis sarà proiettato addirittura dopo la mezzanotte di Capodanno, si prevedono incassi da urlo.

Io voglio parlare a più gente possibile, più che unirla, ma non per gli incassi (che nemmeno condivido), bensì perché essere capito è il senso del mio lavoro. Quando scrivo penso a mia madre, mi chiedo se lei mi capirebbe, e cerco un linguaggio universale che non sia pacchiano. Rivendico l’appartenenza al concetto gramsciano di nazional popolare. E, soprattutto, ho un forte senso di comunità, sono nato e cresciuto in un quartiere popolare, i miei genitori erano operai. Ho imparato che uniti si vince, divisi si finisce con l’essere sudditi.

Allora, almeno, il successo dà la carta bianca? I sogni diventano immediatamente obiettivi, quindi realizzabili?

Le cose belle nascono dal superamento di un ostacolo. Non ho mai cercato, né voluto la carta bianca che, peraltro, non mi è mai stata data. Il cinema è un lavoro collettivo: i miei produttori (Camilla Nesbitt e Pietro Valsecchi) non hanno mai smesso di mettermi in discussione.

La satira è un potere occulto, ma sta diventando di maniera (lo ha detto Zalone in un’intervista di ieri sul Foglio): l’ultimo vero potere, stando al vostro successo, sembra essere l’ingenuità, per quanto possa sembrare stridente in un tempo fatto di antipolitica, antifede, antitutto.

L’empatia che suscita il suo personaggio sta nella precisa scelta di proporsi come ipocrita. Il primo a essere sbagliato è lui, quindi non addita lo spettatore: sta a quest’ultimo riconoscersi o meno, ma di certo non viene giudicato. Nell’introduzione a I Fiori del Male, Baudelaire scrive “ipocrita lettore, vile fratello”: ecco, noi ci sentiamo fratelli degli ipocriti e anziché mettere a nudo loro, preferiamo mettere a nudo noi stessi. Per questo non facciamo satira: la satira serve solo a deresponsabilizzare e deresponsabilizzarsi. Noi, invece, ci siamo dentro fino al collo.