Non siamo più il Paese delle partite Iva

Scende il numero degli autonomi, in parte per i fallimenti delle microimprese, in parte perché ci sono meno false partite Iva. Ma il problema è che non c’è un aumento corrispondente degli occupati regolari

Che fine hanno fatto gli autonomi e il “popolo delle partite Iva”? Con il Jobs Act l’attenzione si è spostata sui contratti a tutele crescenti e sul tempo determinato. E la categoria delle partite Iva, al centro del dibattito nei vent’anni precedenti, è stata dimenticata, dalla politica e dai media.

Molto connotata politicamente tra gli anni Novanta e Duemila, corteggiata dal centrodestra, guardata con sospetto da alcuni settori di sinistra, sospettata sempre di godere di un benessere eccessivo, favorito da una tendenza spiccata all’evasione, in realtà questa è la categoria che più ha sofferto la grande crisi dal 2008-2009.

Le partite Iva sono una forte gamba del mercato del lavoro italiano, che ha più del 23% di lavoratori autonomi sul totale della forza lavoro. Una delle percentuali più alte d’Europa. Se tuttavia si estende lo sguardo a tutti i lavoratori indipendenti (quindi ai vari cococo, cocopro e associati in partecipazione), si scopre che negli ultimi 10 anni in Italia sono scomparsi quasi un milione di addetti. A fine 2004 erano circa 6 milioni e 300 mila, dieci anni anni dopo sono 5 milioni e 300 mila.

Nel frattempo, nonostante la crisi economica, i lavoratori dipendenti sono cresciuti della stessa grandezza: oggi ci sono circa 17 milioni, contro i 16 milioni del 2004.

Corteggiata dal centrodestra, guardata con sospetto dalla sinistra, sospettata di godere di un benessere favorito da una tendenza all’evasione, in realtà questa è la categoria che più ha sofferto la grande crisi dal 2008-2009

Di fatto, si tratta di un cambiamento più che evidente nel mondo del lavoro. Un cambiamento che ha delle cause ben precise. Una parte del calo dei lavoratori indipendenti si deve ai fallimenti di aziende conseguenti la lunga recessione degli ultimi otto anni. Si calcola che nel 2014 ve ne siano stati 15.600, contro i 9400 nel 2009 (+66%, se non è record mondiale, poco ci manca). Si è trattato della perdita di occupazione di altrettanti imprenditori, ma non solo: ne hanno fatto le spese anche collaboratori non dipendenti, consulenti, direttori commerciali e soci.

Nel frattempo è cresciuto e si è sedimentato qualcosa di molto diverso: una massa di giovani partite Iva iscritte al regime dei minimi, quindi sotto la quota di reddito di 30 mila euro annui. Sono lavoratori che spesso si presentano in ufficio come i dipendenti, ma che vengono pagati con il saldo della fattura. Altri, molti di più, si trovano in un’area grigia di precarietà ed elevata dipendenza dal committente, che spesso è unico. Entrambi i profili non vedranno mai malattia, ferie, maternità, legge 104 (permessi retribuiti per l’assistenza a parenti disabili, ndr) o licenza matrimoniale. Queste false partite Iva si calcola siano oggi circa 400mila, più di una ogni dieci autonomi. E guadagnano poco, molto poco: è stato calcolato che gli iscritti a alla gestione separata dell’Inps – generalmente quella in cui confluiscono i parasubordinati – nel 2013 avevano un compenso lordo medio di 18.640 euro, che in termini netti significa un reddito da 8.670 euro annui, 723 euro mensili.

Se questa è la loro situazione, non è forse un male il calo del numero di lavoratori indipendenti certificato anche dalle ultime rilevazioni dell’Istat. Anche perché la loro alta incidenza non è il sintomo di un’economia sana e avanzata: in Europa sono Paesi come Turchia e Grecia quelli con il maggior numero di lavoratori indipendenti, cui segue appunto l’Italia, e poi Polonia e Portogallo.

Se molti degli autonomi erano false partite Iva senza diritti, non è forse un male il calo del numero di lavoratori indipendenti. Ma questa diminuzione non è stata compensata da un’assunzione e ha finito per alimentare il calderone di inattivi e disoccupati


Non è il calo delle partite Iva in sé, che ci deve preoccupare quindi. Come ha recentemente testimoniato l’Istat, i lavoratori indipendenti sono anche stati gli unici, lo scorso ottobre a diminuire in quantità, una diminuzione di molto superiore all’aumento degli occupati totali. Il problema, quindi, è quello di reinserire nel mercato del lavoro con maggior sistematicità chi esce da tale regime di gestione retributiva. O, ancora di più, i giovani al primo impiego. Giovani, peraltro, il cui contributo alla crescita dell’occupazione – anche in quest’ultimo periodo di “segno più” – è negativo. Con tanti saluti all’Italia col “segno più”.

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