Violenza e arte, la mostra a Milano

L’esposizione di Andi Kacziba racconta il percorso interiore di una donna, la sua difficoltà con la società schiava dell’immagine e i suoi pentimenti per le occasioni non colte, come la famiglia

Come imparare dai propri errori, rileggere all’indietro la vita e le esperienze negative subite, e infine cercare soluzioni nuove. Non è un manuale di self-help, ma una mostra (assai pregevole) delle opere di Andi Kacziba, a cura di Sabino Maria Frassà, inaugurata a Milano, nello Studio Museo Francesco Messina, all’incrocio tra via Torino e via S. Sisto.

In primo luogo, l’esposizione è un dialogo con la mostra permanente delle opere di Messina (lo scultore, per capirsi, del cavallo della Rai), composta da immagini e statue di donne (le ballerine della Scala, le amanti della sua vita): sono il segno, concreto, della visione maschile sulla donna, per essere banali.

Il tema principale di Vìola (così si intitola la mostra) è la violenza. Si tratta di “violenza fisica e sociale”, spiega Andi Kacziba, ungherese, ex modella, da 20 anni in Italia, “sociale perché si riferisce a tutto ciò che gli altri si aspettano da te, dal modo in cui si comportano da te, da come guardano te”. Per rappresentare questo disagio, tanto forte da deformare l’identità stessa della persona, Andi Kacziba ha creato delle forme particolari: cilindri di corda, con in fondo degli specchi. “Chi li guarda, cerca subito la propria immagine riflessa. Ma ogni specchio è diverso, deforma e cambia” e nessuno è più in grado di riconoscersi. È il culto dell’immagine, che diventa violenza.

Insieme alla violenza, c’è lo smarrimento. “Ho lavorato come modella, e ho visto ragazze bellissime e fortunate che poi, nel tempo, si sono perse. Perché è un lavoro che non dà radici, regole, possibilità di creare una famiglia. E dopo, si trovano da sole”. Tutto il rimuginare sugli errori fatti, sulle possibilità non colte – e nemmeno concesse, in realtà – si manifesta nel giro di corda che forma i cilindri, costante e tortuoso.

Oltre ai temi della sterilità e dello smarrimento, la svolta della mostra è nella figura della Santa Veronica: pazza che segue Gesù, che perde sangue e non è in grado di risolvere i propri drammi interiori. “È l’esempio di chi non riesce a risollevarsi da solo, di chi ha bisogno di aiuti da fuori”. È il fallimento, che trova un riscatto nel piano inferiore della mostra. “Risalire, riformarsi. Attraverso figure organiche e richiami alla tradizione ungherese”, cioè l’utilizzo di ceramiche smaltate. Il simbolo è chiaro: il passato rivissuto per ricreare le propria identità.

Come mostra è piccola, ma ben allestita: era programmata per coprire la giornata della violenza sulla donna, ma i tempi sono slittati, riducendone la durata (chiude il 20 dicembre). Sembra un’occasione perduta, come le tante evocate all’interno. La famiglia, l’identità, la stabilità.

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