L’autocompiacimento è una trappola pericolosissima nel comunicare. Scriviamo e parliamo, dimentichi spesso che nel farlo gli unici su cui dovremmo concentrarci non siamo noi ma gli altri, coloro a cui la nostra comunicazione è destinata e che ne sono anche immancabilmente giudici. E che vorrebbero viverla da protagonisti e non da vittime.
E così cadiamo in uno degli errori più gravi che si possano commettere: il troppo. Gli amici inglesi dicono “Less is more”, peraltro mutuando l’espressione di un noto architetto, antesignano dell’essenzialità.
“Veni vidi vici”, ecco fatto e abbiamo capito che con i Galli andò bene. Oggi si leggono dei libri, giunti alla fine ancora la faccia del protagonista non l’abbiamo disegnata nella mente; Dante nel descrivere Minosse ci dice “orribilmente e ringhia” e lo vediamo davanti a noi maestoso, spaventoso, bestiale. Nulla di più, perché si imprima per sempre nella nostra memoria.
L’essenzialità della sintesi che contrasta la paura di non dire abbastanza, la paura di non essere abbastanza autorevoli, la paura del poco ma sufficiente. Potremmo ricorrere all’alibi di una formazione scolastica che ci imponeva di riempire quattro pagine di foglio protocollo, pena la reprimenda dell’insegnante di lettere che avrebbe stigmatizzato la nostra sintesi. Non basta. I meccanismi della mente sono impietosi.
Posto che nel campo delle neuroscienze le scoperte, purtroppo, si susseguono con impietosa contraddizione, lasciando ancora il funzionamento del cervello per molta parte sconosciuto, una cosa è però acclarata: la soglia di attenzione e in particolare dell’ascolto è bassissima. Peraltro l’ascolto non è affatto diffuso e non va confuso con il mero sentire, pura funzione fisiologica, ma è una attività che richiede esercizio, dedizione e pratica: attirare e mantenere l’attenzione delle persone è una attività decisamente impegnativa. Si dice che la nostra mente faccia una “vacanza”, ossia riceva controstimoli rispetto all’attenzione del momento, sollecitata di continuo dai nostri sensi, ogni circa 6 secondi. Insomma cogliamo l’attimo.
Che sia a cena con amici, che sia al lavoro o in un contesto istituzionale, dovremmo avere sempre rispetto degli altri e imporci come regola di base la sintesi
Sulla base di queste premesse, che sia a cena con amici, che sia al lavoro o in un contesto istituzionale, dovremmo avere sempre rispetto degli altri (e viceversa gli altri di noi, in un scambio infinito di ruolo tra vittima e carnefice) e imporci come regola di base la sintesi. Dire poco, ma dirlo bene: dire molto, specie in assenza di una struttura, risulta confusivo, annoia e può arrivare a incrinare la nostra stessa autorevolezza.
I tecnici e i politici sono in particolare due tra le categorie più afflitte da questo assillo del “tanto”. I primi, i tecnici, perché temono che essere sintetici possa deprimere la loro autorevolezza, dimentichi del fatto che se parlano a dei tecnici stanno dicendo cose in molti casi già note e se parlano a dei non tecnici dovrebbero chiedersi quale quindi possa essere il livello di interesse rispetto ai temi da loro trattati.
I politici per ragioni esattamente opposte, ossia perché tentano di annegare nell’essere prolissi e nella fumosità la mancanza di reale conoscenza e di approfondimento, giocando su leve persuasive, impedendo un sano contraddittorio.
È curioso che oggi tutto vada nella direzione della sintesi: espressione massima di ciò Twitter, da molti, forse anche giustamente contestato perché impone lo sforzo di concentrare il proprio messaggio in 140 caratteri. Si può discuterne all’infinito, tuttavia lo si potrebbe prendere come esercizio quotidiano: cercare di attirare l’attenzione con poche parole e omaggiare noi e gli altri del dono più prezioso: il tempo.