Giù le mani da Sean Penn e dal sacrosanto diritto di parlare coi cattivi

L'attore e regista statunitense è stato accusato dalle autorità messicane e "ha fatto infuriare" la Casa Bianca, ma ha solo assecondato l'istinto di chi racconta le storie: andare sul luogo del delitto a parlare col cattivo

La storia del nuovo arresto del Chapo Guzman, il più famoso e potente narcotrafficante messicano in circolazione, ha fatto il giro del mondo in pochi minuti. Guzman nella sua carriera è già stato arrestato due volte, evadendo entrambe le volte in modi più o meno rocamboleschi, ma questa volta la notizia ha avuto un sapore speciale.

Da come l’hanno raccontata i media, l’arresto di El Chapo sarebbe da collegare alla collaborazione tra il suo eccesso di sicurezza, il suo eccesso di autostima e il suo eccesso di ego. Tre eccessi che hanno il volto di Sean Penn.

Il 2 ottobre dell’anno scorso, infatti, l’attore statunitense con l’aiuto dell’attrice messicana Kate del Castillo, ha incontrato e chiacchierato con il boss durante un buffet in un luogo misterioso, sperduto nella foresta. Secondo alcuni, sarebbe stata proprio questa serie di contatti e questo incontro, avrebbero permesso alle autorità di arrestare El Chapo.

Al di là delle ipotesi più o meno cinematografiche, una delle conseguenze della faccenda del rocambolesco arresto del boss messicano è stata l’apertura di un’indagine su Sean Penn da parte della polizia messicana, riportata dalla ABC. Una cosa assurda, resa ancora più assurda dalle dichiarazioni del capo dello staff della Casa Bianca Denis McDonough, che sentito dalla CNN ha detto che la mossa di Sean Penn avrebbe mandato “su tutte le furie” anche la Casa Bianca.

Accusare Sean Penn è una ridicola follia. Penn oltre ad essere un attore è anche un regista e uno sceneggiatore. Significa che raccontare le storie fa parte del suo lavoro. E quando ha accettato di mettersi in ballo per incontrare Guzman — quasi certamente contattato dallo stesso Guzman — l’ha fatto per raccontare una storia, assecondando il più naturale degli istinti che muovono qualsiasi narratore, che sia un giornalista, un regista o uno scrittore.

Nessun cronista, se non per paura della propria incolumità fisica, declinerebbe un invito del genere, inoltrato da uno dei più grandi cattivi della nostra epoca. Come quella sera del 1996 in cui Robert Fisk ricevette l’invito a farsi una chiacchierata con Osama Bin Laden, come quella volta che, nel 1958, il giornalista americano Andrew Saint-George riuscì a organizzare un incontro segreto, nel febbraio del 1958, sulla Sierra Maestra di Cuba insieme a Fidel Castro.

Non si può chiedere a un giornalista di non raccontare una storia. E nelle storie, quelle scritte bene almeno, la morale è esterna, ce la mette il lettore quando legge. Non spetta a Sean Penn — come non spettava a Robert Fisk o a Andrew Saint-George — giudicare o arrestare la persona che voleva parlare con lui.

Il giornalista, come gli ambasciatori dell’antico adagio, non porta pene. A lui spetta solo il compito di raccontare le storie. E visto che a inventarle ci bastano gli scrittori, ai giornalisti dobbiamo per forza chiedere di più: chiediamo di essere i nostri occhi, le nostre gambe, il nostro punto di vista. Condannare Sean Penn è condannare il nostro punto di vista. Fatelo pure, ma chiamatelo censura.

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