Quando Giuseppe Catozzella ha iniziato a farsi leggere e far parlare di sé nel mondo dell’editoria era all’incirca il 2011 e lui era appena uscito con uno straordinario libro intitolato Alveare, un “romanzo d’inchiesta” sulla ‘Ndrangheta a Milano pubblicato originalmente da Rizzoli che gli è valso l’attenzione del pubblico.
Chi lo legge già da un poi’ lo sa che la cifra stilistica di Catozzella è proprio questa commistione di reale e di romanzesco che, filtrato dal punto di vista e dalla sensibilità del narratore, arriva ad accumulare una potenza narrativa che hanno in pochi, almeno in Italia. Una potenza che ha dimostrato con il romanzo Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, 2014), ispirato alla vera storia di Samia, atleta somala con il sgono delle Olimpiadi e un mare, il Mediterraneo, tra lei e il suo sogno. Non dirmi che hai paura ha venduto solo in Italia 150mila copie — e fidatevi, non sono cose che fanno in tantissimi — ma ancor di più che è riuscito a sensibilizzare migliaia di persone sulla tragedia dell’esodo dei migranti attraveros il Mediterraneo, arrivando persino all’ONU, che ha nominato Catozzella Goodwill Ambassador UNHCR, Ambasciatore dell’Agenzia ONU per i Rifugiati.
Iniziamo con una domanda di stretta attualità. Siamo probabilmente nel momento storico in cui occidente e medioriente si trovano più lontani da secoli. Ma che rapporto c’è tra, realmente, tra la cultura islamica e la nostra?
Dire che l’islam e il cristianesimo sono in fondo la stessa religione sarebbe falso, come sono false tutte le semplificazioni, ma è veramente assurdo come, in questi anni, ci stiamo dimenticando che sono variazioni della stessa cultura religiosa. Sono entrambe abramitiche, come l’ebraismo d’altronde, da cui entrambe originano, e hanno tantissimi punti di contatto, a partire dal fatto che figure come Madonna e Gesù siano presenti nel Corano, e con ruoli molto importanti. La cosa interessante, nel rapporto tra Islam e noi, e che l’aspetto sui cui differiscono le due religione è sulla concezione dell’individuo. E ci stupirà, ma è l’islam quello che punta di più sull’individuo.
Spiegami meglio…
Noi raccontiamo l’islam quasi sempre come una religione di comunità, dove il singolo fa quello che la comunità gli chiede di fare, ma in realtà l’islam è una religione che, all’opposto, punta moltissimo sulla persona, sul singolo, sull’individuo. La comunità — che loro chiamano Umma — è molto importante, è un sostegno all’individuo, può aiutare anche economicamente, ma la strada della fede è tutta individuale. Prendiamo un altro concetto che di questi tempi ci è decisamente familiare, ma che non abbiamo capito appieno: il Jihad. Il concetto di Jihad è centrale nell’islam, ma non significa soltanto, come ripetiamo sempre, “guerra santa”, ma ha un significato più profondo, molto più profondo e molto più occidentale di quanto crediamo.
Cosa significa?
Significa “sforzo”. È lo sforzo di uscire dal luogo in cui sei nato. La strada che devi fare personalmente verso il tuo destino, verso la tua felicità personale. O anche un altro concetto che dai nostri racconti mediatici è travisato: La Shaaria, che significa “cammino che porta alla fonte”. A voler dire che ogni fedele, attraverso il proprio sforzo personale, ovvero il jihad, arriverà a un certo punto della sua vita, quando è consapevole e, per così dire usando un termine molto occidentale, “illuminato”, a intraprendere il proprio cammino che lo porterà alla propria fonte. Questa è una visione abbastanza diversa rispetto alla nostra cristiana e cattolica, ma per il resto dobbiamo ammettere che le due religioni, che hanno la stessa radice, sono in fondo molto simili.
Cosa può fare un romanzo per riavvicinare i due mondi?
È quello che ho provato a fare in questo romanzo: attraverso una storia singolare, quella di alcuni personaggi che ho incontrato, ho cercato di far emergere direttamente dal racconto, alla fine della parabola del protagonista, la radice comune delle due culture. È per questo che ho scelto una narrazione molto particolare, in cui realtà, fantasia, leggenda e epica si mischiano, una narrazione che ha tratto molta ispirazione anche dai testi sacri, dal Corano ai Testamenti, ma mi verrebbe da citare anche l’Orlando Furioso…
È bello sentire nominare tra i testi sacri l’Orlando Furioso…
Be’ lo è a tutti gli effetti secondo me, come l’Iliade, il Don Chisciotte e molti altri che hanno intercettato qualcosa di talmente solido e duraturo — mi verrebbe per questo da dire sacro — da resistere al tempo, che è poi la vera misura della sacralità di un libro. Ma dicevo, è una narrazione particolare, in cui c’è anche un po’ di fiabesco.
Per esempio?
Il protagonista Amal porta in petto un cuore diviso in due, e una delle due parti è cristiana. Questo perché nasce in un villaggio travolto dalla guerra e, quando è piccolo, viene gravemente ferito da una esplosione di una mina, una scheggia di quella mina gli colpisce il petto e lo costringe a subire un’operazione in cui gli viene messo un pezzo di cuore di una bambina cristiana. Questa contrapposizione interna reale, che lui vive come lotta perché ospita dentro di sé il “nemico”, tenterà di risolverla fino alla fine del suo percorso all’interno del romanzo. Quello che ho cercato di fare è stato proprio raccontare la divisione di cui parlavamo prima, cercando di evidenziare attraverso la narrazione la radice comune delle due culture, che poi è l’umanità.
Per i tuoi romanzi parti sempre da storie urgenti, e non solo per te, ma per tutti noi. Storie di mafia, di migrazioni, di guerre, di tensioni sociali e culturali. Non hai mai paura di essere risucchiato dalla storia? Come fai a stabilire qual è la giusta distanza?
Sì, ho spesso quella paura. Mi sento un po’ intrappolato in questa mia necessità di fare i conti con il reale. con il debito che sento nei confronti della realtà. Hai ragione, le storie con le quali mi misuro sono sempre molto cocenti, hanno sempre a che fare con quel che io reputo lo spirito del tempo. Con questo non voglio dire che cerco le mie storie nell’attualità, anche perché, per esempio, quest’ultima l’ho incontrata la prima volta quattro anni fa. La mia aspirazione è quella di trovare storie che frequentino l’universale il più possibile, che non risentano della caducità tipica delle “breaking news” o di tutte quelle storie che durano nella nostra mente soltanto il tempo di un titolo sui quotidiani. Naturalmente è una bella lotta, è una sfida enorme.
Per tornare alla tua domanda, in questo caso, dato la materia così cocente e violenta, ho cercato di mettere una maggior distanza tra me e la storia. È sempre narrata in prima persona, ma il ricorso a forme quasi arcaiche, come ti dicevo prima “da testo sacro” — e sì, sul serio mi sono ispirato al Corano — mi ha aiutato a mettere tra me e la storia quella distanza senza la quale avrei rischiato di far crollare tutto. Sono partito da un incontro vero, reale, in carne ed ossa, che ho fatto quattro anni fa e ho cercato di trasformarlo, per così dire, in leggenda, mito, storia universale. Non so se ci sono riuscito, ma è quello che ho cercato di fare.
Che cosa fa di una storia un mito?
Ci sono storie che si consumano nel giro di un’uscita giornalistica su un settimanale, o addirittura su un quotidiano, storie che vengono masticate molto velocemente e dall’altro invece ci sono storie immortali, che rimangono. Qual è la differenza è difficilissimo dirlo, è una domanda molto complessa. Non so bene, forse è il tono. Sì, forse è solo una questione di tono. Una differenza di eco che riesci a dare alle tue storie. Puoi raccontare una storia in maniera secca, senza che essa risuoni, oppure puoi farla riecheggiare, risuonare. Ma è veramente arduo spiegare come.
La letteratura può influire veramente sulla realtà o è solo una bella storia che ci piace raccontare a noi stessi?
No, no, è assolutamente un potere reale. Gigantesco. Ammetto che prima, quando ero le storie le frequentavo più che altro da lettori, era una cosa che intuivo, che mi sembrava bella, ma di cui non conoscevo sul serio il gradiente di verità. Ora da scrittore ho visto che cosa può fare una “semplice” storia, ho visto che potere può avere. Una storia può sensibilizzare, può muovere governi, istituzioni, addirittura — e mi è capitato — le Nazioni Unite. Il potere della parola e del racconto è grandissimo, e non è un caso, né una bella storia che amiamo raccontarci, che sia proprio il racconto ad essere la base dell’Umanità. Se c’è una cosa che non solo può cambiare, ma che ha effettivamente cambiato il mondo e continua a farlo sono proprio le storie. La Storia con la maiuscola si è sempre mossa grazie alle storie più piccole, quelle vissute e raccontate dalle persone. Le storie sono virus che non riusciamo a tenere per noi, che dobbiamo raccontare e che non si arrestano, si intrufolano ovunque, si espandono, sedimentano e e fruttano altre storie, si moltiplicano. Le storie non le puoi tenere ferme. Perdonami l’immagine un po’ retorica forse, ma è quella che mi viene in mente sempre: avere una storia potente dentro è come essere innamorato, non riesci a evitare di dirlo a tutti. È qualcosa realmente più forte di te, e così sono le storie potenti, come quelle che sono andato a cercare o che ho incontrato. Perché una storia è sempre e solo il frutto dell’incontro tra chi sei tu e ciò che è il mondo. E sono convinto di un’altra cosa: questa potenza non la riconosciamo soltanto noi che di mestiere le storie le raccontiamo, questa potenza è alla portata di tutti perché raccontare storie è il mestiere di ogni uomo. Per questo le polemiche sullo “storytelling” — che è poi il raccontare ma detto in inglese — non valgono nemmeno la pena di essere commentate. Stephen Jay Gould scriveva che avremmo dovuto chiamarci Homo narrator piuttosto che Homo sapiens. Alla fine quel sappiamo è solo quello che ci raccontiamo. Tutti. Ed è esattamente per questo che tutti hanno la sensibilità necessaria per rendersene conto: non facciamo altro nella nostra esistenza che raccontarci storie, la nostra, prima di tutto. Per definire chi siamo, rilocalizzarci nel mondo e anche costruire il nostro futuro.