IconologieJovanotti, il “grande dittatore” del pop

Lorenzo è un uomo dell'establishment, pugno di ferro in guanto di velluto. Anche se si presenta camuffato da squaw e da supermam, e parla di "bambinizzazione" della società

Dj è acronimo di disc jockey, cioè la carriera che non ha avuto («avrei potuto diventare un dj internazionale», ha detto una volta) e, da adesso, forse, pure la sigla di un tempo nuovo: il dopo Jovanotti. Finisce oggi a Firenze il fantasmagorico tour che ha mesmerizzato gli italiani negli stadi (500mila), nei palasport (tutto esaurito quasi ovunque) e pure quelli rimasti a casa (ha scritto Guia Soncini su La Repubblica che “il concerto globale di Jova lo avete visto anche se non lo avete visto”), insomma un paese intero.

«Trasformeremo i palasport in spazi pulsanti, intimi, ad altissima intensità», aveva detto Lorenzo poco prima di riprendere il live, che ha diviso in “onde emotive”. A intervistare Jovanotti nessuno manda qualche stronzo come Jep Gambardella (il viveur di La Grande Bellezza), quindi non sapremo mai cosa siano le onde emotive (Massimo Coppola, direttore del Rolling Stones, quando lo ha intervistato, la scorsa estate, gli ha tirato fuori le seguenti verità: a scuola era un «figo sfigato», si faceva le seghe e pensava più alla musica che alle sbarbine).

Capire un artista, dopotutto, importa? Certo che no, se non fosse che Lorenzo non è soltanto un artista, ma pure un musicista del fare: «vedo la gente che ho di fronte ogni sera: c’è una delega, una fiducia e io questa fiducia me la giocherò, ma per cambiare» (fulgido mash up di renzismo, Eataly e 1994); uno spin doctor: «qui si decidono le cose e i politici non contano nulla, per questo non ci sono» (l’ha detto raccontando, all’università di Firenze, di una quattro giorni segreta con le 80 personalità, lui compreso, che secondo un non specificato colosso di Internet hanno in mano le sorti dell’avvenire); un veggente: «l’immigrazione è una grande ricchezza, purché non vengano maschi soli, ma anche le loro donne, come nelle migliori discoteche anni ’80, dove ti lasciavano entrare soltanto in coppia» (era il 2010 e Jova già preconizzava il capodanno di Colonia, in una insospettabile chiacchierata con Aldo Cazzullo).

La sua musica ormai è un elemento accessorio della sua performance. E nella sua iconografia non c’è nulla che non richiami a uno sbarco, un mondo da colonizzare, un potere che estendere, una enduring freedom da esportare e imporre, col pugno di ferro nel guanto di velluto.

Quando sale sul palco, però, Jova sta ben attento a non sembrare renziano (Andrea Scanzi, qualche mese fa, faceva notare che il suo endorsement al Premier è il solo di tutto il cantautorato italiano), né spin doctor o veggente.
Sul palco, Jova è uno sciamano, un bambino, una pioggia di argento vivo, un re lucertola (e pure camaleonte) agli antipodi di Jim Morrison, che alla fine dei concerti si accorciava la vita, mentre lui la preserva, gettandosi in una vasca piena di cubetti di ghiaccio, per riaversi dal grande sforzo muscolare. Nel suo grande spettacolo, osannato come un evento innovativo (mica facile nascondere che la musica è l’elemento accessorio della performance e non il contrario) e offerto come trance collettiva, rivoluzione senza sangue, guerra di pace, gigantesco “Viva Tutto!”, passeggiata nel grande prato dell’emozionale umano, la teoria del re Camaleonte disegna un’iconografia del potere mozzafiato. Marziano, cowboy, squaw, Elvis (lui è il solo italiano che con le frange addosso non sembra Little Tony), man who sold the world.
«Senza regole temporali e barriere culturali», così dicono di aver lavorato gli stilisti di Valentino, che hanno disegnato gli abiti di Lorenzo per il tour nei palasport, pensando positivo all’amore e all’armonia. Con indosso la gonnellina da squaw, dove però non è raffigurata l’America, ma l’Africa (più meritevole di commozione), una camicia un po’ zebrata e un po’ tigrata, la fascia di Alberto Tomba per i capelli e il mantello di paillettes da Infanta Imperatrice, la giacca con sopra i pianeti che girano ma non lo fanno girare come una bambola: non c’è nulla che non richiami a uno sbarco, un mondo da colonizzare, un potere che estendere, una enduring freedom da esportare e imporre, col pugno di ferro nel guanto di velluto.

Un guazzabuglio moderno dove il pubblico si perde, non bada al rimando e si gode l’impatto, mentre il domatore li ammansisce facendoli scatenare (chi non è stato, almeno una volta, sul punto di eviscerarsi da solo e senza anestesia, ascoltando “L’ombelico del mondo?”: non scrivendo più canzoni tanto meravigliose, Lorenzo contrattacca con la forza del costume, che è la maschera del suo cigno nero).
Un guazzabuglio che al domatore serve per confonderci: nulla è più anarchico del potere, sosteneva Pasolini, aggiungendo che ognuno odia il potere che subisce, ma pure che in quell’odio esiste un godimento, il principio di un attaccamento al proprio dominus. Quando Massimo Coppola ha detto a Jovanotti che i suoi dischi, ormai, mettono d’accordo tutti, lui si è risentito non solo perché sa che l’Italia è il paese dei Masaniello e persino una carriera come la sua potrebbe rivoltarglisi contro, ma soprattutto perché sa che il vero potere è il sottopotere e che lui funziona fintanto che sembra una rockstar, uno che si gira e affronta lo straniero e cambia, come cantava Bowie in Changes.
Fintanto che discetta di bambinizzazione della società, di happy ending, fintanto che ci urta poco poco e urtandoci ci lega a lui con la sindrome di Stoccolma. Fintanto che la sua maschera mixa il casual del ragazzo di provincia e il provincialismo razzista del texano con le frange sui gomiti, coprendo la giacca e la cravatta dell’uomo dell’establishment che è diventato e, forse, è sempre stato.

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