Il 2016 sarà, come è noto, anno shakesperiano. A quattrocento anni dalla sua morte, il mondo intero – ma quello anglosassone in particolare – si prepara a celebrare il grande Bardo in vari modi (conferenze, perlopiù, ma anche cose più fantasiose). Peccato che, secondo alcuni studiosi, William Shakespeare non sia mai esistito.
L’ipotesi, subito respinta dalla maggior parte dei scespiriologi (inglesi e americani), partirebbe dalle singolari (e sospette) conoscenze di Shakespeare in campi eterogenei e distanti. Da dove viene la sua conoscenza delle lingue (lui che non ha mai viaggiato), dell’Italia (che non avrebbe mai visto), dell’aristocrazia, della filosofia, della Bibbia? Da quali fonti attinge? Davvero un mezzo contadino di Stratford Upon Avon, con solo il dono del talento, avrebbe potuto scrivere quello che William Shakespeare (o chi per lui) ha scritto? La domanda è retorica, la risposta – secondo alcuni – è no.
Il vero autore (perché sì, esiste un vero autore) allora sarebbe un’altra persona, cioè John Florio. Ai più non dirà nulla, ma agli esperti di epoca elisabettana molte cose. Era un intellettuale (in realtà, per gli studiosi, un “tecnico”), un poligrafo, traduttore, poliglotta, lessicografo e cortigiano. Segretario personale per sedici anni della regina Anna di Danimarca, propagatore della cultura europea nel mondo inglese. Nato in Inghilterra, ma di origine Italiana (Florio, appunto), sarebbe il punto di congiunzione perfetto per il mondo evocato (e spesso raccontato) delle opere di Shakespeare. “Nei suoi scritti”, scrive il filosofo canadese Lamberto Tassinari su Le Monde, “si trova una quantità di elementi impressionante per la quantità e la qualità che condivide con le opere teatrali firmate da Shakespeare. L’analisi comparata di tutte queste materie permette di concludere, in modo filologico, che si tratta, in realtà, di un unico autore”. Florio “usava il suo nome per le opere d’erudizione, e un nom de plume, per le opere di finzione”.
Sarà vero? Lo pensano studiosi come Santi Paladino, che nel 1927 avanzò la proposta. Ma, nelle sue ipotesi, mescolava John e Michelangelo (il padre), creando un po’ di confusione. Secondo lui i Florio provenivano da una famiglia calvinista siciliana, e furono costretti a fuggire in Inghilterra. Per mantenere un legame nostalgico con la patria, inventarono il nome “Shakespeare” traducendo il cognome della madre, Crollalanza. Ipotesi suggestiva, quasi seducente.
Per il resto, tutto si riduce a speculazione. Florio era un grande conoscitore di Montaigne, e ne tradusse I saggi in inglese. E, guarda un po’, uno dei passaggi della Tempesta sembra ricalcare il Discorso sui selvaggi del filosofo francese. Puro caso? Florio era anche un caro amico di Giordano Bruno. E che ti succede? Nella celebre Pene d’amor perdute compare un personaggio bizzarro, che altro non sarebbe che una rappresentazione del filosofo nolano. Anche il nome lo lascia intendere (Berowne, cioè Bruno). D’altro canto, le notizie su Shakespeare sono scarne, indimostrate e carenti. I pochi contatti su cui c’è un accordo generale tra gli studiosi, guarda un po’, sono tutti amici di Florio.
In fondo, ragionano qui, due personalità come Florio e Shakespeare, che hanno vissuto a Londra nello stesso periodo e negli stessi luoghi, non avrebbero avuto incontri memorabili? Magari anche scontri epici, diatribe, insulti. Invece, niente. Il vuoto totale. Come tra Batman e Bruce Wayne. O tra il dottor Jeckyll e mr. Hyde. Se è vero che il grande autore è in grado di dar vita ai suoi personaggi, nel caso di Florio (se la teoria è esatta) c’è stato un passaggio ulteriore, in cui il personaggio ha oscurato il creatore. Diventando lui la celebrità. Tanto da meritare, a quattrocento anni dalla presunta morte, una commemorazione.