Un esercito di “cittadini di fatto” a cui è negato il più elementare dei diritti costituzionali: quello di voto e partecipazione alla vita politica del Paese.
Secondo l’Istat (dati 2015) sono 3.929.916 gli extracomunitari regolarmente presenti in Italia, di cui il 76 per cento maggiorenne. Di questi, 2 milioni e 250mila sono soggiornanti di lungo periodo, cioè in Italia da almeno cinque anni. Il 12 per cento del totale si trova nella Città Metropolitana di Milano, il 26 per cento nella sola Lombardia.
Un’altra cifra: ventiquattro anni gettati nell’immondizia dall’Italia per riconoscere a queste persone il diritto di elettorato attivo e passivo. Era il febbraio 1992 quando Palazzo Chigi ratificava la Convenzione di Strasburgo promossa dal Consiglio d’Europa. Stava crollando l’ultimo governo Andreotti e assieme a lui la prima repubblica. Un’altra era geologica. La carta firmata nella città del Basso Reno parlava chiaro: “Impegno dei contraenti a concedere diritto di voto e eleggibilità alle elezioni locali ad ogni residente straniero, a condizione che questi abbia risieduto legalmente nello Stato Ue nei cinque anni precedenti alle elezioni”. Articolo 6, comma 1. Punto.
Ventiquattro anni gettati nell’immondizia. Nel febbraio 1992 l’Italia ratificava la Convezione di Strasburgo, “impegnandosi a concedere elettorato passivo ed attivo ad ogni residente straniero di lungo periodo”. Un quarto di secolo la proposta di legge di iniziativa popolare giace impolverata in qualche cassetto di Montecitorio
Un quarto di secolo dopo la situazione non è cambiata di una virgola per i non comunitari. Una proposta di legge di iniziativa popolare giace dimenticata in qualche cassetto delle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Affari Esteri di Montecitorio. Presentata la prima volta il 6 marzo 2012. Assegnata alle Commissioni senza mai essere discussa. Poi, dopo le politiche del 2013, riassegnata nuovamente il 7 maggio di quell’anno. Da allora solo polvere.
Il Consiglio comunale di Milano ha già modificato a maggioranza lo statuto cittadino a fine novembre 2014, in merito ai referendum cittadini e stabilendo il diritto di elettorato attivo e passivo per i cittadini non comunitari residenti nel capoluogo da più di cinque anni. Il 12 novembre 2015 il consigliere del Pd, Alessandro Giungi – assieme ai colleghi Mazzali (Sel), Cappato (Radicali), il capogruppo Pd a Palazzo Marino, Lamberto Bertolè e altri – ha presentato un ordine del giorno per chiedere a Pisapia e giunta di fare pressioni su Governo e Parlamento affinché la legge di iniziativa popolare venga calendarizzata e discussa. Attendono ancora una risposta.
Intervistato da Linkiesta il consigliere Giungi ha dichiarato: «È una profonda ingiustizia, a maggior ragione visto l’impegno preso nel 1992. Non chiediamo di concedere il diritto di voto a chiunque, parliamo di persone che si trovano regolarmente in Italia da almeno cinque anni: pagano le tasse, mandano i figli a scuola, lavorano, vivono i quartieri e la città – e gli impediamo proprio di partecipare al voto comunale, quello più diretto. Per i cittadini comunitari di altri Stati questo diritto è già sancito. Non ci vorrebbe un grosso sforzo, è una legge che si approva in tempi rapidi».
«Pagano le tasse, mandano i figli a scuola, lavorano e vivono le città. È una profonda ingiustizia. Il vero problema sono gli iter delle leggi di iniziativa popolare:al 95 per cento rimangono lettera morta»
Nelle ultime settimane, dentro la sinistra meneghina, si è anche polemizzato sulla paternità del progetto – come da buona tradizione “left-aggressive” e masochista. Non si contano le stoccate fra gli staff elettorali di Pierfrancesco Majorino e Francesca Balzani, con accuse reciproche di essersi copiati l’idea. Nel grande gioco delle primarie accade anche questo. «Una battaglia comune dagli anni novanta anche grazie all’Anci. Nei due staff elettorali ci sono persone con sensibilità uguali. Si è trattato solo di momenti di “dialettica” relativa alle primarie, dove peraltro i cittadini comunitari possono iscriversi e votare. Non esiste una primogenitura, ma sarebbe interessante capire cosa ne pensa il candidato Sala», ha commentato Giungi, aggiungendo che «il vero problema è la sorte delle leggi di iniziativa popolare in Parlamento, che al 90-95 per cento rimangono lettera morta».
E dire che, questa volta, per onorevoli e senatori di lavoro da fare ce ne sarebbe veramente poco: basterebbe copiare quanto stabilito nel 1996 con decreto legislativo 197 a proposito di cittadini di altri Stati membri della Ue. La legge di iniziativa popolare arenata in Commissione riprende un testo già presentato dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci). Analisi e dati disaggregati esistono e sono stati raccolti nel working paper “La partecipazione politica degli stranieri a livello locale” a cura dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) e commissionato dalla ex Provincia di Torino.
I Comuni battono in velocità il legislatore: Campi Bisanzio (Firenze) chiedeva chiarimenti e risposte per i suoi 3.029 extracomunitari nel 2003. Ma i sindaci sono spaccati: solo il 53 per cento è favorevole a concedere il diritto di voto
Il piccolo Comune di Campi Bisenzio (Firenze) ancora nel 2003 rilevava un problema e chiedeva risposte, per i suoi 3.029 cittadini stranieri con regolare permesso di soggiorno, pari a circa il 7-8 per cento della popolazione totale. Dagli anni ’90 si sperimentano le best practice del Consigliere Aggiunto: cittadino straniero eletto e con diritto di parola all’interno dei “parlamentini” locali ma senza diritto di voto sulle delibere. Un ruolo più che altro di raccordo fra consigli comunali e comunità di migranti.
L’Anci non viene informata da deputati e senatori sullo status dei lavori – bloccati in commissione come detto. Chissà che se con il “Senato dei Sindaci”, a cui il premier Renzi associa qualità taumaturgiche, la comunicazione si farà più spigliata. Tuttavia i comuni non sono immuni da colpe: in primo luogo per non aver fatto adeguata pressione sui propri rappresentati romani: spesso ex sindaci e vicesindaci che hanno fatto il grande salto verso i colli capitolini. Inoltre fra gli stessi amministratori locali non c’è completa uniformità di vedute: secondo un recente sondaggio si schierano a favore del voto amministrativo per i non comunitari il 53 per cento dei primi cittadini. Percentuale che sale al 71 se si contano le sole amministrazioni di centrosinistra. Una fronda interna troppo nutrita perché si possa contare qualcosa a Roma.
L’Italia è in buona (pessima) compagnia: Grecia, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Austria, Polonia, Lituania ed Estonia. Maglia nera anche per Francia e Germania. Sul podio ci salgono i Paesi scandinavi e Dublino, che non pone alcun limite di tempo per esercitare il diritto di voto
Anche ad imbracciare un cannocchiale e guardare oltre le Alpi si scoprono sorprese: se il ritardo cumulato dal ’92 a oggi indigna, l’Italia non si trova certo in cattiva compagnia fra i Paesi della Ue-28. Grecia, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Austria, Polonia, Lituania ed Estonia si comportano come il Bel Paese. Addirittura l’accogliente Germania e la Francia si rifiutano di concedere il diritto di voto ai non comunitari residenti, nonostante Strasburgo e il Consiglio d’Europa siano ospitati entro i confini transalpini. Il Regno Unito concede un trattamento privilegiato a cittadini provenienti da nazioni del Commonwealth, Spagna e Portogallo alle ex colonie. Sui gradini del podio troviamo invece i Paesi scandinavi e l’Irlanda: Dublino non prevede nemmeno un limite di tempo minimo prima di potersi armare di penna e scheda elettorale.