Mps e Carige nelle contrattazioni in Borsa del 12 gennaio hanno rapidamente recuperato il tonfo del giorno precedente. Con i loro rispettivi +4,86 e +10,71% sono tornati a livelli di poco inferiori a quelli di venerdì 8 gennaio. È quindi probabile che si sia trattato, come dichiarato lunedì in una nota da Carige, solo di movimenti speculativi di breve termine, non correlati all’andamento operativo del gruppo. Per entrambi gli istituti di credito, però, le azioni rimangono a un valore pari alla metà rispetto allo scorso maggio. E se il movimento al ribasso di lunedì di Mps può essere dovuto alla vendita del fondo brasiliano Btg Pactual, il fatto che la discesa si sia estesa a Carige segnala che le due banche sono viste come l’anello debole del sistema bancario italiano.
Da dove nasce questa debolezza? Il problema non è più di tipo patrimoniale. Le ricapitalizzazioni che entrambi gli istituti hanno affrontato hanno portato i loro Cet1 (un indice di patrimonio) sopra i livelli minimi richiesti dalla vigilanza europea. Che, infatti, a novembre ha promosso sia Mps che Carige, nell’ambito dell’esame “Srep”. Una buona notizia dopo la bocciatura di entrambe – uniche tra le 13 analizzate – negli stress test del 2014.
Per Mps e Carige il problema non è più di tipo patrimoniale, dopo che le ricapitalizzazioni hanno fatto raggiungere i livelli richiesti dalla Bce. I problemi sono due: la scarsa redditività e la pubblicità negativa fatta al sistema bancario italiano presso gli investitori internazionali dal decreto salva-banche
Il problema, per loro come per altri istituti di credito, è di due ordini: la bassa redditività e l’incertezza sulle banche italiane da parte di investitori internazionali seguita alla vicenda delle quattro popolari (Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti) salvate alla fine del 2015 e ai problemi delle due popolari venete che dovranno quotarsi. A dicembre è stato lo stesso ad di Mps, Fabrizio Viola, a dire al Corriere della Sera: «Dobbiamo ancora rendere sostenibile la ripresa dell’attività. Dobbiamo lavorare sui ricavi ma i tassi a zero limitano molto, e quindi ridurre ulteriormente la base dei costi». Questi sono scesi nel 2015 a causa del taglio di 4.600 posti di lavoro previsto dal piano industriale. Nessuna banca è stata d’altra parte particolarmente convincente nei piani industriali sulla ripresa dei ricavi preferendo puntare su taglio dei costi e soprattutto sull’aspettativa di un minore costo del credito.
A causare la bassa redditività sono i bassi margini di interesse le rettifiche sui crediti malati (incagli e sofferenze), che terranno bassa la profittabilità nel 2016. Come ha sottolineato un report di Kpmg sui bilanci delle banche italiane nel 2014, la discesa degli interessi attivi è stata un problema per tutti gli istituti, sebbene in buona parte compensata dalla parallela discesa degli interessi passivi. Nel 2015, tuttavia, la forbice attivi/passivi si sta riducendo.
Si stanno abbassando anche i profitti derivanti dal portafoglio titoli di Stato, che erano stati una buona fonte di copertura fino a fine 2014, mentre maggiori ricavi sono arrivati dalle commissioni: si fanno pagare di più ai clienti le operazioni bancarie. Le buone notizie, a livello di sistema, sono arrivate dalle rettifiche di valore, sia sui crediti che sull’avviamento. Questo è avvenuto, spiega Kpmg, «sia per effetto del miglioramento del contesto macroeconomico a partire dal secondo semestre 2014, sia per le azioni di “pulizia” effettuate dalla maggior parte dei gruppi bancari tra il 2011 e il 2013. L’andamento del campione è tuttavia fortemente influenzato dal dato dei gruppi maggiori che registrano una riduzione del costo del credito».
A causare la bassa redditività sono i bassi margini di interesse le rettifiche sui crediti malati (incagli e sofferenze), che terranno bassa la profittabilità nel 2016
Sul fronte dei crediti deteriorari la situazione è molto diversa da istituto a istituto. Basta guardare gli incagli, cioè i crediti critici che possono trasformarsi in sofferenza o rientrare “in bonis”. Un’elaborazione di Linkerbiz mostra come nel 2014 abbiano continuato a correre e che in cima alla lista degli istituti problematici ci sia stata Mps: nel solo 2014 ci sono stati nuovi incagli pari al 121% degli incagli esistenti, contro una media del 70% delle prime 12 banche italiane. Presto si vedrà come è andato il 2015.
«Mentre entrano nuovi incagli, una percentuale dei vecchi incagli mediamente pari al 33% passa a sofferenza nel corso del 2014 e il 17% rientra in classificazione in bonis oppure viene incassata», sottolineava il sito. Un problema che, quindi, non si risolve con la vendita di sofferenze per un miliardo di euro avvenuta a dicembre da parte di Mps. Carige ha mostrato un minore ingresso di nuovi incagli.
Perché allora il tonfo di lunedì ha accumunato le due banche? Una spiegazione è che sia Mps sia Carige, dopo la bocciatura negli stress test del 2014, hanno davanti una prospettiva di fusione con un altro gruppo bancario, o meglio di essere acquisite. Di questi matrimoni, però, non c’è ancora traccia, per cui rimane per entrambe il giudizio di una inadeguatezza a ballare da sole.
C’è poi la questione del salvataggio delle quattro banche popolari dell’Italia centrale. Non c’entra direttamente con Mps e Carige, ma ha prodotto l’effetto di far concentrare l’attenzione sull’Italia degli investitori internazionali. Spesso con giudizi affrettati, che si basano semplicemente sul peso elevatissimo delle sofferenze, che in media sono il triplo rispetto alla altre banche europee: il 16,7% del patrimonio totale, a fronte del 5,6% della media Ue. Se parte la speculazione dei trader, con vendite allo scoperto che scommettono sui ribassi, le prime a rimetterci sono gli anelli della catena percepiti come più deboli.