L’ultimo caso è quello di Mehdi Hamil. Il 25enne venditore ambulante di tappeti, di origini marocchine, è stato arrestato il 25 gennaio in provincia di Cosenza con l’accusa di «auto-addestramento» tramite la consultazione di video pubblicati su Youtube, con l’obiettivo di compiere «atti di violenza con finalità di terrorismo internazionale». Il questore di Cosenza l’ha definito un «jihadista da tastiera».
Le carte parlano di un «accanito» e «morboso» interesse di Mehdi per immagini, filmati e altri contenuti propagandistici «riferiti all’organizzazione terroristica dello Stato islamico». Tanto che gli inquirenti mettono l’accento sul piano tariffario del suo cellulare con un «traffico dati voluminoso da dieci giga». Alcuni dei video consultati, dicono, «rimandano a forme di addestramento e combattimento tra soggetti incappucciati, tutti contrassegnati dall’inconfondibile “brand” del Califfato». Non si tratta di filmati segreti, rintracciati da Mehdi nel dark web o in siti criptati. Sono video consultabili da chiunque su YouTube. Basta tutto questo per fare di Mehdi Hamil un potenziale terrorista? Secondo le leggi antiterrorismo approvate nell’aprile 2015, sì.
Le nuove norme nascono all’indomani della strage di Charlie Hebdo a Parigi e prevedono che venga punito anche colui che, attraverso supporti telematici, si informa sull’uso di armi da fuoco o esplosivi con finalità terroristiche. Il problema è proprio accertare le finalità terroristiche.
Le nuove norme nascono all’indomani della strage di Charlie Hebdo a Parigi e prevedono che venga punito anche colui che, attraverso supporti telematici, si informa sull’uso di armi da fuoco o esplosivi con finalità terroristiche. Il problema è proprio accertare le finalità terroristiche
La visione dei video di propaganda del Califfato da parte di Mehdi Hamil, secondo gli inquirenti, non avrebbe avuto come obiettivo il semplice autoaddestramento, ma proprio la volontà di arruolarsi nell’Isis. Lo proverebbe un viaggio in Turchia non andato a buon fine, visto che le autorità dell’aeroporto di Istanbul lo hanno subito rispedito a Fiumicino per motivi di sicurezza (da qui sono partite le indagini); oltre che il desiderio (non realizzato) di trasferirsi in Belgio dal cugino. Sarebbero questi, scrivono gli inquirenti, segnali dell’intenzione di Mehdi di «raggiungere l’area di conflitto siro-iracheno» per «ultimare nelle aree di guerra il proprio addestramento anche combattendo tra le fila di gruppi terroristici».
Le indagini sono ancora in corso e il 25enne venditore ambulante si trova in custodia cautelare nel carcere di Cosenza. Dopo l’arresto, è stato nominato un perito tecnico con l’obiettivo di scandagliare il computer di casa Hamil e i suoi cellulari. Il ragazzo sarebbe entrato in contatto con utenze telefoniche che a loro volta risultavano essere state in contatto con altre persone orbitanti nel mondo del radicalismo islamico. Niente telefonate dirette, dunque, ma solo triangolazioni. Al momento, in effetti, non esiste nessuna trascrizione di telefonate sospette.
La visione dei video di propaganda del Califfato da parte di Mehdi Hamil, secondo gli inquirenti, non avrebbe avuto come obiettivo il semplice autoaddestramento, ma proprio la volontà di arruolarsi nell’Isis
Nel corso dell’interrogatorio, «il ragazzo ha spiegato di aver visto i video su YouTube per curiosità. E poiché c’erano altri video correlati, ha continuato a cliccare», spiega Francesco Porto, legale di Mehdi Hamil. «Si tratta di video di propaganda che possiamo trovare e vedere tutti in rete. Ora sta all’interpretazione del magistrato stabilire se la semplice consultazione di un video che non descrive come si fabbricano ordigni ma fa solo propaganda sia un valido indizio di prova. Guardare un video dove si vedono delle esplosioni non significa saper preparare un ordigno. Se si pensa che questi video siano così pericolosi, perché non li oscurano? Così si fa solo un processo su presunte intenzioni. È una legge pericolosa».
Nell’interrogatorio, Mehdi, che è un musulmano praticante, ha spiegato di essere andato in Turchia «per pregare in una moschea più grande». Il padre non voleva che partisse e lui lo ha fatto di nascosto, per trascorrere lì l’ultima settimana di Ramadan. Ma secondo gli inquirenti quella era solo una prima tappa di un viaggio più lungo verso l’arruolamento in Siria nelle file dell’Isis. «La condotta dell’indagato è andata ben oltre la mera autoinformazione», scrivono gli inquirenti, realizzando «un auto-addestramento non fine a se stesso» ma finalizzato all’arruolamento per la guerra santa.
Si tratta di video di propaganda che possiamo trovare e vedere tutti in rete. Ora sta all’interpretazione del magistrato stabilire se la semplice consultazione di un video che non descrive come si fabbricano ordigni ma fa solo propaganda sia un valido indizio di prova. Guardare un video dove si vedono delle esplosioni non significa saper preparare un ordigno. Se si pensa che questi video siano così pericolosi, perché non li oscurano?
«È già successo che questo tipo di operazioni non abbiano portato a nulla sul piano penale», dice Guido Savio, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Quello di Hamil non sarebbe che l’ultimo caso di indagini per terrorismo motivate con la frequentazione di siti islamisti o pagine Facebook estremiste. «Diverse operazioni di questo tipo si sono concluse senza un rinvio a giudizio o sono state archiviate».
Il problema è che il decreto Pisanu del 2005 per la prevenzione del terrorismo internazionale, emanato dopo gli attentati alla metropolitana di Londra, «dà al ministro dell’Interno la possibilità di espellere uno straniero per motivi di prevenzione del terrorismo». E così avviene per molti. Il ragionamento, spiega il giurista è che, «visto che non ti posso processare o condannare perché non ho elementi sufficienti, ti rispediamo nel tuo Paese perché la tua permanenza potrebbe agevolare le organizzazioni terroristiche».
Se succederà questo anche a Mehdi ancora non si sa. È già successo, per esempio, dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015, a quattro cittadini marocchini residenti da anni a Bologna. Il pm Enrico Cieri aveva chiesto la cattura ma il gip aveva rigettato la richiesta ritenendo che non ci fossero elementi sufficienti per giustificare le misure. Così a fine novembre è arrivato il decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno Angelino Alfano. L’anno prima era successo a Oussama Kachia, saldatore marocchino stabilitosi in Brianza, per il quale le prove del suo legame con il terrorismo internazionale sarebbero stati i tweet in cui esaltava la giustizia sociale dello Stato islamico e criticava i combattenti curdi di Kobane. Per la procura di Varese era un soggetto “potenzialmente plagiabile da soggetti intenzionati ad arrecare pericolo allo Stato italiano”. Quindi è scattata l’espulsione. La stessa cosa era accaduta a Faqir Ghani, operaio pakistano in Italia da 14 anni colpevole di aver condiviso su Facebook materiale legato al terrorismo islamico. Il Viminale, potendo secretare gli atti, può non produrre prove o capi di imputazione. Basta solo l’espulsione. In un anno, le espulsioni per motivi di prevenzione del terrorismo sono state più sessanta. E tutte nel pieno rispetto delle leggi.
Diverse operazioni di questo tipo si sono concluse senza un rinvio a giudizio o sono state archiviate. Il problema è che il decreto Pisanu del 2005 per la prevenzione del terrorismo internazionale, emanato dopo gli attentati alla metropolitana di Londra, dà al ministro dell’Interno la possibilità di espellere uno straniero per motivi di prevenzione del terrorismo. E così avviene per molti
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