Snapchat cerca un Language Ambassador Program in Italia. Medici senza frontiere, invece cerca un Digital Content Editor. Sono entrambi lavori che un giornalista potrebbe fare. La “call” di Msf, in particolare, richiede una serie davvero impressionante di competenze. Queste due offerte di lavoro, in un certo senso, fanno ben sperare per il presente e il futuro — i curriculum non sono ancora passati del tutto di moda — ma ci fanno anche chiedere: abbiamo la professionalità necessaria per candidarci a posizioni di lavoro simili? Invece di chiederci se il giornalismo è pronto per il futuro, chiediamoci se noi siamo pronti per il giornalismo del futuro.
La domanda, purtroppo non è di quelle banali. Perché in Italia la risposta rischia di essere negativa. Più o meno negli stessi giorni in cui sono uscite queste due offerte di lavoro, sulla stampa italiana sono apparsi due articoli che ci riportano alla realtà nella quale siamo immersi.
Il primo è un pezzo di Stefano Lorenzetto, pubblicato su L’Arena di Verona. Lorenzetto racconta la sua profezia circa il trapasso dei tipografi, una trentina d’anni fa. Poi applica il medesimo metro ai giornalisti e afferma «il giornale digitale? Quattro smanettoni esperti di grafica ed è fatto» e invita i grandi editori che hanno sia un sito sia un cartaceo a chiudere per sei mesi gli online: «Una moratoria informatica. E vediamo che cosa mangiano mattina, mezzogiorno e sera gli scrocconi del Web».
Abbiamo la professionalità necessaria per candidarci alle posizioni di lavoro di oggi? Invece di chiederci se il giornalismo è pronto per il futuro, chiediamoci se noi siamo pronti per il giornalismo del futuro.
Questo accadeva il 3 gennaio: già si intuiva il brutto 2016 che si steva delineando in prospettiva.
Quattro giorni dopo, il 7 gennaio, mentre il Wall Street Journal diventava la diciannovesima testata a sbarcare su Snapchat, dalle nostre parti veniva pubblicata un’intervista a Umberto Brindani nella quale il direttore di Oggi diceva la sua sul dibattito carta-contro-digitale. Scorrendo velocemente l’intervista si incontrano frasi tipo «mal si presterebbe allora un articolo di approfondimento su uno schermo di uno smartphone o di un tablet» o «il web però può dare maggior spazio alla posta dei lettori».
Annunci che richiedono competenze ben poco diffuse in Italia da una parte; professionisti che hanno poca presa sul presente di una professione che credono di conoscere, dall’altra. Una professione che però, nel frattempo e altrove, è evoluta di almeno due decenni. Insomma, forse il problema non è solo di competenze alla base, se il livello della conversazione pubblica è questo. C’è qualcosa di più grande di un cubetto di ghiaccio nel mare agitato della crisi dell’editoria in cui navighiamo qui in Italia: un bell’iceberg.
Lo si intravede ai corsi per giornalisti nell’enorme calderone sforna-crediti che è la formazione professionale continua (obbligatoria e più che auspicabile, se organizzata per offrire concretezza, una noiosa perdita di tempo per tutti, nel caso contrario). Lo si sente dire dai colleghi che partecipano ai corsi, soprattutto quelli che appartengono a quella fascia intermedia che si trova a subire più di tutte, per mere ragioni anagrafiche, la transizione fra il modello cartaceo e il modello del web. Si percepisce dai loro racconti, dalle domande che fanno, dal loro bisogno di uscire dall’equivoco nel quale si trovano loro malgrado.
Si sentono ripetere frasi-mantra, tipo “dobbiamo fare traffico”, “fammi un pezzo social”, “giriamo un video virale?”, “facciamo le liste tipo Buzzfeed” e altre amenità abusate, tolte dal loro contesto e svuotate di significato. Comprensibilmente, non sanno come uscire da questo pantano.
Qualcosa non va se il livello del dibattito è questo, se la percezione che alcuni propongono del web è quella di un enorme blob-cannibale dove sopravvivono in pochi che, follemente, producono per un pubblico di scrocconi. Qualcosa non va, o, se va, va malissimo, quando si investono 10 milioni di euro in un progetto come Gazzetta Tv pensando che possa avere un grande futuro e dare grandi risultati in poco tempo, lanciando in corsa una macchina a velocità folle per poi tirare il freno a mano e fare un’inversione a “u” senza badare se, oltre a prodotti e marchi, si investono anche le persone. Diventano quasi effetti collaterali accettabili, le persone travolte da situazioni come questa, come i civili che muoiono in una guerra. Perdono il lavoro per scelte manageriali che si rivelano poco oculate? Pazienza, sembra di sentir dire, sono solo effetti collaterali da mettere in conto. Peccato che anche allontanarsi dalla modernità (come scrive Alessandro Oliva), anziché tendere al futuro, sia l’altro effetto collaterale.
E il fatto che tutto questo accada mentre altrove, invece, si investe in ricerca e sviluppo, non rende più dolce la pillola. Il Guardian, per esempio, grazie alla Knight Fundation, ha un programma da 2,6 milioni di dollari per The Mobile Innovation Lab. Il New York Times ha il NYTLab. Di solito, quandosi fanno questi esempi ai corsi, qualcuno risponde: «Sì, ma loro sono il Guardian e il New York Times». Obiezione alla quale dobbiamo incominciare a ribattere. «Almeno proviamoci ad essere anche solo un decimo di quel che sono loro».
«Il giornalismo e i giornalisti non stanno morendo affatto, non moriranno finché esisteranno delle storie da raccontare e un pubblico che vuole farsele raccontare. Bisogna semplicemente capire che dobbiamo evolvere, aggiornarci, muoverci con umiltà in un territorio pieno di nuovi strumenti, aiutarci a vicenda, progredire e smettere di farci la guerra l’uno con l’altro»
La profezia di Lorenzetto non tiene, come tutte le profezie. Non c’è niente da profetizzare, c’è da guardarsi intorno e rimboccarsi le maniche. Perché il giornalismo e i giornalisti non stanno morendo affatto, non moriranno finché esisteranno delle storie da raccontare e un pubblico che vuole farsele raccontare. Bisogna semplicemente capire che dobbiamo evolvere, aggiornarci, muoverci con umiltà in un territorio pieno di nuovi strumenti, aiutarci a vicenda, progredire e smettere di farci la guerra l’uno con l’altro. Tutto ciò è ben diverso dal rassegnarsi a morire o dall’armarsi per una crociata luddista contro l’internet.
Bene allora, ma cosa si può fare? Si possono fare tante cose. Internet non è uno, sono tanti. Quindi non c’è una soluzione sola. Ce ne sono tante, in dipendenza di quale sia il nostro pubblico e di quale sia il prodotto che vogliamo vendere. Con Slow News, insieme a quattro colleghi giornalisti e allo staff di DataMediaHub, ci siamo inventati Wolf.
Che cos’è Wolf? È una newsletter riservata a un pubblico di abbonati paganti, rivolta a tutti coloro che si interessano e lavorano a tematiche legate alla comunicazione online, ai modelli di business, ai social network e ai social media, alla SEO, al giornalismo, all’editoria, ai contenuti digitali, al futuro della comunicazione e dell’informazione
Che cos’è Wolf? È una newsletter riservata a un pubblico di abbonati paganti, rivolta a tutti coloro che si interessano e lavorano a tematiche legate alla comunicazione online, ai modelli di business, ai social network e ai social media, alla SEO, al giornalismo, all’editoria, ai contenuti digitali, al futuro della comunicazione e dell’informazione. Wolf non è propriamente un giornale, è uno strumento che racchiude altri strumenti. Di fatto, è la prima “pubblicazione” in Italia che si occupa di queste tematiche in via esclusiva e in maniera professionale e per professionisti (oltreché per semplici curiosi o interessati).
L’idea alla base di Wolf non è solo quella di creare un nuovo prodotto editoriale, ma anche di offrire strumenti, costruire relazioni per una comunità che ha bisogno di rivendicare la propria professionalità, di riappropriarsene, di conoscere gli strumenti a disposizione, di rimettersi in gioco. Sia per iniziative di autoimprenditorialità sia per mettere le proprie competenze al servizio di gruppi editoriali che vogliano cavalcare il cambiamento in atto e sfruttare tutte le opportunità che offre.
Noi giornalisti non dobbiamo rassegnarci a un’insipida esistenza lavorativa da fabbricanti di contenuti né abbandonarci al vittimismo, non dobbiamo accettare condizioni di schiavitù. Possiamo ancora avere un enorme impatto sulla società che viviamo. Per farlo dobbiamo collaborare tra noi, iniziare a tifare innovazione smettendo di volere l’innovazione soltanto se promossa da noi. E sia che scegliamo di giocare nel campo in cui i contenuti li pagano gli sponsor, sia che decidiamo di giocare in quello in cui pagano i lettori, la soluzione è sempre la stessa, vecchia, come tutte le soluzioni che funzionano: abbiamo bisogno di recuperare la fiducia dei lettori. Dobbiamo essere credibili, professionali, corretti.
Non lo diciamo noi, lo dice la legge istitutiva della professione. Che non è del 2016, è del 1969. Basta riadattarne il significato ai nuovi canali distributivi e se ne riscoprirà l’attualità: non è detto che novità tecnologiche richiedano di modificare radicalmente le basi della professione. Non è detto che storytelling significhi raccontar storie nel suo senso deteriore. Anzi, un uso consapevole dei social, della seo, dei motori di ricerca, delle app, delle tecniche di narrazione che si possono applicare anche a un articolo di puro giornalismo – al netto delle parole di moda, quelle buzzword che contaminano irrimediabilmente il modo di pensare e inquinano l’ecosistema lavorativo – non può che arricchire la professione ed esaltarne le caratteristiche. Per farlo, c’è un enorme bisogno di abbandonare le posizioni conservatrici di rendite di posizione ormai insostenibili, di alzare il livello delle competenze e del dibattito. Ma soprattutto c’è bisogno di iniziarlo sul serio, questo dibattito.
Per tutti questi motivi, abbiamo scelto di utilizzare, per il lancio di Wolf, una formula che si basa proprio sulla fiducia, sulle relazioni e sulla conversazione, con una campagna di autofinanziamento (o, se preferite l’anglicismo, di crowdfunding). Vogliamo fare di Wolf una piattaforma collaborativa e persino di mutuo soccorso. Il giornalismo non sta morendo: è arrivato il momento di riappropriarsene.
*Alberto Puliafito è direttore di Blogo.it da giugno 2012, fondatore di TvBlog, fa il giornalista e il regista; ha una casa di produzione indipendente, iK Produzioni. All’attivo due libri inchiesta, videoclip, cortometraggi, documentari, programmi di intrattenimento leggero. È cofondatore di Slow news.