Accordo Ue-Gran Bretagna: a brindare è la City

L'annuncio del referendum lo ha messo subito in secondo piano. Ma l'accordo firmato da Cameron a Bruxelles contiene una concessione speciale per il mondo finanziario londinese. E non sarà innocuo

Londra – «Avremo davvero il referendum, allora?», chiede una ragazza in cerca di conferma all’amica che ha appena acceso il computer. Mentre gli hipster dei cafe londinesi prendono lentamente atto di quel che sta accadendo, l’Inghilterra, e con lei l’Europa, si sveglia questa settimana già diversa da prima. Dentro l’UE o fuori? C’è una data precisa ora, il 23 giugno, con cui fare i conti. Ma non è solo questo. Un «deal», l’accordo siglato da David Cameron a Bruxelles venerdì 20 febbraio, ha già trasformato la realtà. Le cose non sono già più come prima.

«Radio, Televisione, giornali. Si sono dimenticati dell’accordo sottoscritto troppo in fretta. Sono ora tutti intenti a capire se quel tal ministro o quel tal parlamentare si schiera per la Brexit o per la permanenza in Europa. E nessuno sembra più curarsi del negoziato siglato venerdì, che invece avrà le sue conseguenze», interviene il professor Anand Menon, docente di Politiche Europee al King’s College di Londra. In quell’accordo, che Cameron ora userà per sostenere il sì alla permanenza in un’Europa “riformata”, Menon, vede molte ambiguità e molti pericoli per il progetto Europa. Dopo mesi di negoziazioni, il risultato non è poi così slavato («watered down», dicono da queste parti) come molti sembrano credere.

Occorreva un modo perché Londra potesse prendere parte alle decisioni dell’eurozona per tentare di influenzarle a suo vantaggio. E quel modo è stato ottenuto nell’accordo firmato venerdì 20 febbraio

Forse il premier ha dovuto fare qualche concessione sui benefits ai migranti comunitari. Ma in cambio ha ottenuto ben altro. A dirla tutta, l’interesse strategico della Gran Bretagna, al di là della propaganda politica, non era affatto la migrazione. Quello, aveva del resto già spiegato il ministro delle Finanze George Osborne in una serie di interviste lo scorso 3 novembre in occasione del suo viaggio in Germania, era solo la cosa più “facilmente vendibile” all’opinione pubblica.

Il punto centrale delle negoziazioni che Cameron andava facendo in giro per l’Europa era ben altro. Premeva, a George Osborne e ai conservatori, proteggere le banche inglesi, che operano al di fuori della zona euro, dalle regole introdotte dai paesi della moneta unica, a partire dal progetto di Unione Bancaria Europea. «Bisogna assicurare che se l’eurozona sceglie per sè una maggiore integrazione, lo faccia in modo da non danneggiare gli interessi dei mebri fuori dall’euro», aveva detto Osborno alla Merkel quel 3 novembre. Occorreva un modo perché Londra potesse prendere parte alle decisioni dell’eurozona per tentare di influenzarle a suo vantaggio, senza essere ufficialmente invitata e senza l’obbligo di aderirvi. E quel modo è stato ottenuto proprio da David Cameron nell’accordo firmato venerdì 20 febbraio.

Regole speciali per proteggere la City di Londra

«È la cosa che mi preoccupa di più, perché ci vedo molta ambiguità», commenta il professor Menon. All’interno dell’accordo, accanto al «freno di emergenza» attivabile sui benefit concessi ai migranti economici, e alla «teatrale» richiesta di escludere l’UK da una «ever closer union», c’è anche la possibilità per la Gran Bretagna di intervenire nei progetti di legge della zona euro, anche se di quella zona essa non fa parte. Non si tratta di un potere di veto. Piuttosto, Cameron ha ottenuto che ciascun paese europeo al di fuori dell’eurozona possa «aprire un dibattito» su ogni proposta di legge pensata per regolamentare la eurozona. In soldoni, la Gran Bretagna può rallentare i processi decisionali dei paesi della zona euro, fino a portarli a un punto di stallo. In questo modo può guadagnare spazio per una negoziazione, e in ultima battuta, bloccare o mutare progetti di legge che le sono ostili.

«vedere che i paesi dell’eurozona si muovono verso una sempre maggiore regolamentazione, spaventa la City», spiega Edoardo Bressanelli

Secondo i dati della Bank of England le banche inglesi portano in seno più crediti e debiti in euro di quanti non ne abbiano in sterline. Cosa che le espone alle conseguenze di ogni decisione presa sull’euro e sugli istituti finanziari europei. Non solo. Gran parte delle attività della City di Londra, il centro finanziario britannico, consistono in cross-border services, servizi transfrontalieri tra Gran Bretagna ed eurozona. Londra si è ritagliata negli anni il ruolo di ponte di accesso al mercato unico europeo per paesi non europei, Stati Uniti in primis. Per questo, «vedere che i paesi dell’eurozona si muovono verso una sempre maggiore regolamentazione, spaventa la City», spiega Edoardo Bressanelli, Lecturer in European Politics al King’s College di Londra.

Un esempio? L’Unione bancaria europea. Il progetto, pienamente in funzione da gennaio 2016, ha introdotto regole comuni per tutti gli istituti finanziari dell’eurozona, e dà la facoltà alla Banca centrale europea di vigilare su di essi, e di prenderne il controllo in caso di dissesto. “Obbligatorio” per tutti i paesi della zona euro e facoltativo per gli esterni, è stato rifiutato dalla Gran Bretagna. Che però è consapevole dei contraccolpi che un simile meccanismo avrà sulle sue compagnie. Quello che la City di Londra teme è la fine di un mercato unico ed omogeneo in tutta l’Unione, in cui poter vendere i propri servizi e mantenere un ruolo da protagonista.

«Il Governo inglese deve combattere affinché la City di Londra mantenga la sua posizione prioritaria come centro dei servizi finanziari europei»
Lord Harrison, 12 Dicembre 2012

È interessante rileggere oggi, all’indomani del «deal» chiuso da Cameron, il rapporto preparato dal Comitato Europeo della Camera dei Lord inglesi tre anni fa, nel dicembre 2012, in occasione di un summit europeo dedicato proprio sull’Unione bancaria. Il comitato chiedeva al governo inglese di trovare al più presto un modo per proteggere gli interessi vitali della Gran Bretagna nelle decisioni che la zona euro andava prendendo. Così commentava Lord Harrison, membro del Comitato Europeo della Camera dei Lord inglese:

“Domani il Governo deve entrare in battaglia nel critico Summit Europeo e combattere affinché la City di Londra mantenga la sua posizione prioritaria come centro dei servizi finanziari europei. È vitale che il governo britannico ottenga le giuste negoziazioni così che l’Unione Bancaria Europea non metta a rischio il mercato comune in generale e un mercato unico dei servizi finanziari in particolare, che è estremamente vitale per la Gran Bretagna e per la City. Non deve mettere a rischio la posizione dei paesi che hanno scelto di non far parte della zona euro. (…) Il governo inglese deve fare tutto il possibile per assicurarsi che Londra rimanga in posizione dominante».

Nello stesso rapporto, fatto raccogliendo le voci di personaggi interni ai grandi gruppi finanziari, da Barclays a HSBS alla Royal Bank of Scotland, di ricercatori di importanti think thank come il Bruegel Institute, e di ambasciatori, si sottolineano tutti i rischi che l’Unione Bancaria pone alla City di Londra. Barclays, ad esempio, paventa una fuga di capitali verso la zona euro, se il meccanismo dell’Unione bancaria dovesse essere percepito come più sicuro di quello operante nella City. L’Hsbc vede a rischio il ruolo di Londra come punto di accesso al mercato unico europeo per banche non europee.

«La City vuole mantenere flessibilità e basso livello di regolamentazione, perché in questo modo può attirare molti capitali stranieri», commenta Anan Menon.

«È comprensibile, spiega Menon, che Londra voglia avere voce in capitolo nelle regole che riguardano la zona euro: chiede di non esserne condizionata, visto che mantiene la sua moneta autonoma. Ma dall’altro anche Bruxelles deve proteggersi. La maggior parte delle operazioni denominate in euro avviene a Londra e la zona euro deve salvaguardare la sua moneta da eventuali rischi. L’accordo ottenuto da Cameron a Bruxelles è troppo ambiguo, e per questo ci vedo molti pericoli. La City vuole mantenere flessibilità e basso livello di regolamentazione, perché in questo modo può attirare molti capitali stranieri. Ma la flessibilità è sempre sfruttata dagli investitori privati per fare soldi, con grande rischio dei cittadini».

I benefits ai migranti: Una questione marginale per l’UK, meno per l’Unione

Anche le concessioni ottenute sui migranti europei non sono del tutto innoque, anche se con effetti diversi rispetto a quelli immaginabili di primo acchito. «Le concessioni ottenute dal premier sui benefits ai migranti non muteranno i flussi migratori», ha affermato l’Institute for Public Policy Research (IPPR), il think thank progressista inglese, in una dichiarazione rilasciata nella giornata di sabato, subito dopo l’annuncio della data del referendum.

Desideroso di bloccare l’accesso dei migranti comunitari ai benefits britannici nei primi quattro anni di permanenza in Gran Bretagna, Cameron ha ottenuto l’introduzione di un «freno di emergenza»: sette anni di stop al sostegno economico per migranti economici comunitari attivabile sono nel caso in cui picchi elevati di immigrazione mettano a rischio il sistema di welfare britannico. Il deal prevede anche i «child benefits» (un sostegno economico ai lavoratori con figli a carico e sotto certe soglie di reddito) vengano indicizzati (adeguati) al costo della vita del paese di residenza dei minori, qualora essi non vivano in Gran Bretagna con i genitori. «È improbabile che questo accordo riduca il numero di migranti europei», ha commentato Marley Morris, research fellow all’IPPR. Anche perché il “freno di emergenza” è attivabile solo in certe circostanze e solo con il via libera degli altri paesi europei. «Ma le nostre ricerche mostrano che si è trattato più di una questione di principio, continua, perché l’opinione pubblica inglese vede le regole antecedenti all’accordo come ingiuste».

Per Menon, il costo di questo risultato “simbolico” è però tutto a carico dell’Europa. «È un grande spreco di energie e di tempo in un momento di grosse sfide per il progetto unitario. Avremmo bisogno che i leader si impegnassero ad affrontare le vere emergenze che l’Unione sta vivendo, e invece questo accordo non fa altro che rendere la situazione ancora più complicata e frammentata». Non solo. «Sarà il pretesto perché altri Paesi chiedano presto condizioni speciali anche per se».

Anche se ancora tutta intera, dopo l’accordo di Bruxelles l’Europa si è svegliata già diversa da prima. Più complicata e frammentata. Anche se c’è chi ammette, come Edoardo Bressanelli, che niente di nuovo in fondo appare sotto il sole. L’Europa è da ventanni un progetto che avanza a più velocità, tra paesi che frenano e altri che accelerano. Questa volta, semplicemente, l’Inghilterra ha tirato forte il freno a mano.

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