Successe giusto un anno fa, nel febbraio 2015, a piazza del Popolo. La “piazza della destra” fu improvvisamente conquistata dalle truppe di Matteo Salvini. Un comizio-simbolo. Il punto di partenza del suo arrembaggio verso un ruolo nazionale, la guida dell’opposizione a Renzi. Giorgia Meloni si mise in scia. Accettò di salire da ospite sul palco leghista, più o meno alla pari del dirigente di Casa Pound che presidiava un settore ben preciso della rotonda con i nuovi simboli sovranisti (una spiga d’oro). Fu un palese atto di sottomissione della destra ai “barbari” con le bandiere del Leone di San Marco, gli striscioni delle valli lombarde, e in qualche caso gli elmi e le corna secondo il più classico folklore padano.
Quelli si facevano i selfie nella piazza di Almirante, quegli altri – gli eredi di Almirante – masticavano amaro ma giustificavano il sacrificio con l’inizio di una nuova storia. L’asse Salvini-Meloni. I quarantenni. Il centrodestra che archivia Berlusconi coi modi soft della successione generazionale, senza inutili strappi, senza polemiche, semplicemente sostituendolo nell’immaginario collettivo e creando un nuovo racconto: la lotta alle democristianerie di Alfano, la sicurezza, l’elogio dell’autodifesa, la rappresentanza non più dei “moderati” ma del ceto medio incazzato, e qualche volta armato.
Un anno dopo, la coppia dei miracoli è ai materassi. La Meloni fa la ruota col candidato sindaco Bertolaso. Salvini obietta che l’ultima parola non è detta. Lei prende fuoco e diserta la cena-vertice col Cavaliere. Lui se ne frega. Il Cavaliere disdice. E all’improvviso i ruoli sono rovesciati, perché è il leader leghista che si erge a tutore della romanità di destra offesa – “Su Bertolaso devono parlare i romani” – e la presidentessa di Fratelli d’Italia a recitare il ruolo che per tanti anni fu di Bossi: custode e armigero delle decisioni del Cavaliere.
Insomma, l’onda lunga di quel vecchio rito di sottomissione è arrivata a riva e ha sgretolato il bagnasciuga sotto i piedi della destra. Improvvisamente si scivola. Si rischia di finire sotto. E non si capisce il perché. Eppure, sarebbe così facile guardare indietro e ricordarsi che, non per caso, tutte le destre del passato tennero la Lega a debita distanza. Non si fidavano. Berlusconi si faceva i suoi caminetti con Bossi, e mai Fini pretese di partecipare. Maroni presentava i suoi mirabolanti progetti sicurezza, e dai banchi di An piovevano emendamenti. Speroni annunciava la riforma della Devolution, e il portavoce di An Landolfi prendeva carta e penna e scriveva “non va bene”.
In nome del rapporto con Salvini, Giorgia Meloni ha scaricato prima Storace, poi Alemanno coi rispettivi giri di amicizie, ha messo alla porta intellettuali ragionanti come Buttafuoco (“è musulmano, non ci interessa”), ha alzato barriere contro possibili terzi incomodi come Marchini
La storia del rapporto tra Lega e destra è la storia di un braccio di ferro continuo, nel quale mai la destra ha permesso al Carroccio di oltrepassare la Linea Gotica – anche in senso geografico – con le sue rivendicazioni. Persino quando Alemanno, dopo l’ennesimo scontro, organizzò il famoso “pranzo della pajata” in piazza Montecitorio, tutti i protagonisti se ne pentirono dopo dieci minuti e giurarono “se tornassi indietro non lo rifarei”. Solo una gigantesca rimozione dei precedenti, del passato, poteva far credere alla possibilità di una doppia leadership Salvini-Meloni per mandare in pensione il Cavaliere e dividersi quel che sarebbe rimasto dopo.
Eppure, ci si è provato. Nel nome di quella co-gestione immaginaria, Giorgia Meloni si è liberata di tutti i lacci che la intralciavano, ha scaricato prima Storace, poi Alemanno coi rispettivi giri di amicizie, ha messo alla porta intellettuali ragionanti come Buttafuoco (“è musulmano, non ci interessa”), ha alzato barriere contro possibili terzi incomodi come Marchini, ha sfogliato il carciofo fino a conservarne solo il cuore, pochi ma buoni, pochissimi ma buonissimi.
E alla fine quell’altro, Salvini, ha fatto la mossa del cavallo scartando di lato e buttandola di sella: “Voglio ascoltare i romani”, dice. “Devono parlare i romani”, avvisa. Ed è lui che si mette al centro della scena come nume protettore della destra romana e portavoce dei suoi mugugni contro la candidatura-fantasia di Bertolaso. Un epilogo di ghiaccio, un anno dopo quel comizio in piazza del Popolo che sembrava promettere tutto in cambio di un piccolo, rapido passaggio sotto le forche caudine dell’altro Matteo.E adesso più che attendere gli eventi, già tutti i protagonisti si posizionano per il dopo-voto, immaginando le strategie per levarsi di impaccio nel caso (prevedibile) di una sconfitta.
Salvini potrà dire che i candidati non erano roba sua – ne ha uno solo, a Novara – e che i pasticci sono figli delle scelte dissennate degli altri.
Berlusconi potrà accusare gli alleati di litigiosità, e ricordare che la sua prima scelta per Roma era Marchini, e siccome Marchini un qualche risultato lo avrà, fargli un messaggio di congratulazioni e chiuderla lì.
E la Meloni non potrà che usare lo stesso registro, caricare la croce sulle spalle di Salvini e sul suo tira e molla: sui veti contro Ncd, sui capricci contro Bertolaso, magari pure sugli scandali delle dentiere di Rizzi in Lombardia. Oppure, al contrario, diranno tutti di aver comunque vinto “viste le condizioni”.Destra e Lega sono nate da costole diverse, sono state alleate tattiche grazie alla mediazione del Cavaliere, ma chi pensava ci fossero tratti di Dna comuni oltre la pesca delle occasioni sull’immigrazione o sulla sicurezza, ci vedeva male
E però oltre il cerchio stretto delle tattiche di partito, che sono sempre uguali, in questa vicenda non è difficile riconoscere una lezione di portata più ampia. Destra e Lega sono nate da costole diverse, sono state alleate tattiche grazie alla mediazione del Cavaliere, ma chi pensava ci fossero tratti di Dna comuni oltre la pesca delle occasioni sull’immigrazione o sulla sicurezza, ci vedeva male.
L’anima della destra italiana è nazionale e interclassista, politica e intimamente convinta del “più Stato meno mercato”. Persino quando fece battaglie populiste, la pena di morte per esempio, questa destra si preoccupò di dargli una cornice istituzionale invocandola come conseguenza dello stato di guerra, non come soluzione da Far West. Sono istinti divergenti difficili da cancellare quando, oltretutto, le cose vanno male e non c’è il premio dei posti di potere a giustificare amnesie.Due grandi leader avrebbero forse potuto arrotondare questi spigoli e fare sintesi anziché accordi stiracchiati, due quarantenni in affanno no. Il rubabandiera sul candidato di Roma non è solo un episodio, è un paletto che segnerà una divisione, il bivio che torna a separare le strade. Anche se tra qualche giorno tutti diranno “incidente superato”, è qui che finisce l’avventura cominciata un anno fa tra le bandiere verdi di Piazza del Popolo.