TaccolaIl disastro Mediaset Premium e il triste declino delle tv di Berlusconi

I 2 milioni di abbonati, servono a Mediaset Premium per provare a farsi vendere meglio. Perché la scommessa dei diritti tv per la Champions pagati a peso d’oro serviva soprattutto a mettere in difficoltà Sky. Finora, però, non è andata così

Cambiare è molto più difficile che vendere. La frase si potrebbe appendere ai cancelli di Cologno Monzese, di Milano 2 e di Segrate. Nei mondi magici di Mediaset, nata Fininvest e con un futuro incerto. Difficile pensare che un pezzo enorme come la pay tv Premium tra un paio d’anni sarà ancora di proprietà, se non con quote di minoranza. E del resto che rimarrà? Una tv generalista che il suo mestiere lo sa ancora fare, soprattutto sul lato della raccolta pubblicitaria. Ma che nuoterà in uno stagno sempre più piccolo, mentre si ingrossano le altre piattaforme degli “Over the top”, formula che agli appassionati di film trash (visti su Mediaset) fa venire in mente i muscoli di Stallone. E infatti indica i vari Google, Netflix e gli altri giganti del web che rubano ogni giorno tempo e passioni ai consumatori e agli altri la pubblicità. Un dirigente di Mediaset, a cui Linkiesta garantisce l’anonimato, dice di prevedere una vendita a un soggetto straniero. Non tra dieci ma tra due-tre anni.

Queste sono le voci che girano tra i corridoi, e che d’altra parte non sono nuove. Mentre quelle della vendita di Mediaset Premium non sono voci: sono cartelli affissi da tempo, indicazioni che più chiare non si potrebbe da parte degli analisti, e ammissioni da parte degli stessi protagonisti. Per questo il botto in Borsa di Mediaset di giovedì 4 febbraio (+7,58%), non deve far pensare a chissà quale rivoluzione. I rialzi e i report positivi degli analisti sono tutti arrivati dopo che Pier Silvio Berlusconi ha sventolato il numero che tutti aspettavano: 2 milioni. Si tratta degli abbonati alla piattaforma pay-tv del Biscione. Quella che dal 2007 (per carità, anno di Lehman Brothers) non ha mai fatto utili, ha preso schiaffi da Sky e ha portato a vari riposizionamenti: prima le carte prepagate da pochi euro, poi gli abbonamenti puntando sulla fascia bassa del mercato.

Un dirigente di Mediaset, a cui Linkiesta garantisce l’anonimato, dice di prevedere una vendita di tutto il gruppo a un soggetto straniero. Non tra dieci ma tra due-tre anni.

Tutto un vivacchiare finché Fedele Confalonieri, Pier Silvio e soci (e socio con la B maiuscola) non hanno deciso che era il momento di cambiare strategia. Se Sky non si poteva battere economicamente, si poteva cercare di danneggiarla il più possibile. Una volta ferita a sangue, avrebbe magari considerato più seriamente la possibilità di comprare a un prezzo non di saldo e avrebbe potuto fare concessioni su quello a cui, in fondo, Berlusconi tiene ancora di più: il controllo. Era stato a causa della lontananza su questi due punti che, il 27 aprile 2015, Rupert Murdoch e suo figlio Lachlan da Villa San Martino, Arcore, erano usciti senza aver trovato un accordo con il padrone di casa e con lo stesso Pier Silvio. Da allora è seguita una escalation di dispetti, anche a base di spot. Ma la guerra era iniziata prima, nel maggio 2014, all’assegnazione dei diritti televisivi per il campionato di calcio. All’apertura delle buste era parso evidente che Sky si dovesse aggiudicare i diritti in esclusiva; poi la Infront, advisor della Lega Calcio, spiazzò tutti assegnando i match di nove squadre anche a Premium. Materia per l’Antitrust e per la Procura di Milano, che stanno indagando. Nell’autunno 2014 è poi arrivata la successiva bordata: l’acquisto dei diritti per la Champions League in esclusiva da parte di Mediaset, grazie a un’offerta monstre. Ogni anno, nel triennio 2015-2018, Mediaset si impegnava a pagare 230 milioni di euro (per un totale di 690 milioni). Quando, tre anni prima, Murdoch se l’era aggiudicata per 130 milioni all’anno, Fedele Confalonieri aveva parlato di mercato falsato.

Dal 2007 Premium non ha mai chiuso in utile. Dopo anni di vivacchiare è arrivato l’attacco a Sky sui diritti tv della Champions League. Ma il dissanguamento del concorrente non c’è stato. Né la possibilità di costringerlo a comprare a prezzi non di saldo

Se si doveva affondare Sky, per ora l’obiettivo è fallito. I dati della tv satellitare dicono che tra giugno e settembre c’è stata una discesa di 37mila abbonati, mentre negli ultimi tre mesi del 2015 questi sono risaliti di 12mila. Sky ci ha rimesso un euro di spesa media per abbonato, da 43 a 42 euro (dati della società), ma sono molto lontane le stime di chi aveva ipotizzato un effetto dissanguamento da 103 milioni di euro all’anno, a causa della perdita di 200mila abbonati. Non sono abbastanza da poter far correre le tv di Murdoch a implorare di chiudere la partita della fusione.

Cosa succede, invece, a Mediaset? Il prelievo di sangue da 690 milioni, anche nelle migliori ipotesi di Cologno Monzese, porterà perdite nel 2015 (-33 milioni) e 2016 (-21 milioni) e utili nel 2017 e 2018, per 54 e addirittura 100 milioni di euro. Ma perché questo si realizzi, bisognerà che gli abbonamenti salgano ancora (di almeno altri 500mila rispetto agli 1,7 milioni di luglio) e che salga la spesa media per abbonati. Cifre che però analisti di Barclays avevano da tempo contestato. Secondo i loro calcoli, con il prezzo medio per abbonato del 2014 (24 euro), sarebbero serviti 712mila nuovi abbonati.

Ai primi di dicembre, per raggiungere la fatidica soglia di 2 milioni di euro, sono stati venduti pacchetti a un euro al mese. E in autunno ci sono state offerte che promettevano a chi si iscriveva di cominciare a pagare da gennaio

Ebbene, questo prezzo è aumentato o no? Pier Silvio Berlusconi dice di sì, ma non specifica di quanto. Chi conosce il settore da vicino però si mostra scettico. C’è chi ricorda che ai primi di dicembre, per raggiungere la fatidica soglia di 2 milioni di euro, sono stati venduti pacchetti a un euro al mese per un anno, più un contributo di attivazione di 68 euro. Fanno 6,76 euro al mese. Altri fanno notare che in autunno ci sono state offerte che promettevano a chi si iscriveva di cominciare a pagare da gennaio. Bisognerà vedere quindi i conti veri, alla prossima trimestrale attesa per febbraio. L’unica mossa che può aver tirato su le spese è una lettera che è arrivata agli abbonati, sempre a dicembre: aumenti unilaterali da 1 a 5 euro, due settimane di tempo per disdire. Che tutti i 2 milioni di abbonati decidano di tenere l’abbonamento, anche passate le distrazioni di Natale, è da vedere. Così come bisognerà vedere quanto la scelta di far vedere le partite degli ottavi di finale di Champions solo su Premium invece che in chiaro peserà sui mancati incassi di Publitalia. Fino a oggi parlano i dati dei primi nove mesi del 2015: nuovi costi per ammortamenti sui diritti (solo business italiano) 27 milioni (a quota 558 milioni), mentre i ricavi sono aumentati da 402 a 406 milioni. Se si tratta di digerire 700 milioni, la strada è lunghissima. Parla anche la storia, perché per Premium negli anni passati i break even sono stati annunciati ma non sono mai arrivati.

«Il punto di difficoltà per Mediaset Premium non è quanti abbonati fa, ma a che prezzo», commenta un osservatore della tv come Stefano Balassone, ex membro del cda Rai e oggi docente di economia dei Media alla Luiss di Roma e alla Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il fatto è che le squadre di calcio prosciugano i conti, così come gli altri grandi eventi comprati fa fuori. «Per fare tv a pagamento, bisogna fare molto prodotto proprio, altrimenti si è troppo deboli con i fornitori di prodotto». Ne sanno qualcosa Netflix, che produce le sue serie di punta, ma anche Sky, che da anni punta su X Factor e Masterchef, programmi che hanno il pregio di trasformarsi in quei mini-eventi che fanno sopportare agli utenti anche la pubblicità. Mediaset, che pure di programmi ne produce, sulla piattaforma pay è divenuta schiava del calcio. «È segno che non avevano alternative», dice Balassone. Rincara la dose Daniele Doglio, docente di Economia dei media all’Università di Bologna: «La sensazione è che si siano trovati a mal partito già un paio di anni fa. Hanno deciso di fare un’operazione molto rischiosa, consapevoli che se vogliono competere con un incumbent devono fare dei super-investimenti. La mia impressione è che ci sia molto nervosismo, in un gruppo che è abituato a spadroneggiare indipendentemente dai cicli economici, sicuri che a Roma qualcuno l’avrebbe protetto». La conclusione del ragionamento la fa per tutti Marco Gambaro, docente di Economia dei media alla Statale di Milano: «Nei Paesi in cui ci sono due piattaforme a pagamento, vanno male entrambe e la seconda peggio».

Il dato europeo dice una cosa: nei Paesi in cui ci sono due piattaforme a pagamento, vanno male entrambe e la seconda peggio

E questo riporta alla necessità di un matrimonio. Se l’affare con Sky naufragasse, anche perché si intravedono gli ostacoli sia dell’Antitrust italiana sia di quella europea, l’alternativa che viene sventolata è quella di Vivendi. Il gigante francese dei media ha una liquidità stimata in 10 miliardi di euro ed è ormai azionista di maggioranza in Telecom. La fusione è stata dichiarata sensata da parte alcuni analisti, tra cui quelli non proprio neutrali di Mediobanca (dove Finivest ha il 2%). Lo è nell’ottica di uno “switch” di Mediaset verso le telecomunicazioni, questione che è diventata sempre più un pallino dei piani alti di Mediaset. Se il matrimonio si facesse, però, rimarrebbe il punto: un mercato pay con due operatori di cui uno, Sky, con 4,7 milioni di abbonati, e il secondo con circa 2 milioni. Il bagno di sangue non cesserebbe.

Che Mediaset abbia cominciato a fare i conti con l’invecchiamento dell’offerta è evidente guardando i nomi dei programmi: Grande Fratello, Amici di Maria, Le Iene e così via

Quando mai Premium fosse venduta, che ne sarebbe di Mediaset? Dopo anni di perdita e raccolta pubblicitaria in discesa, i primi 9 mesi dell’anno hanno visto i conti migliorare, almeno in parte. I ricavi pubblicitari sono saliti dello 0,2% (mentre la Rai perdeva il 7,6% e La 7 il 9,7%), mentre il risultato netto di competenza del gruppo è stato negativo per 35 milioni di euro (-46 nello stesso periodo del 2014). Pesano le attività televisive italiane, mentre fanno utili Spagna e le torri di Ei Towers. «Lei quante chance dà alla sopravvivenza di una tv generalista commerciale?» si domanda Daniele Doglio. «Il trend evidente è che alla tv generalista rimangono i grandi eventi che fanno grandi numeri. Tutto il resto, come i film, è territorio di caccia per gli over the top, come Netflix, ma anche come un gruppo come Discovery: in Italia cresce ma è piccolo, nel Regno Unito ha comprato i diritti per i prossimi cinque giochi olimpici. Quando hai di fronte concorrenti che tirano fuori miliardi, è difficile fare concorrenza, soprattutto se come Mediaset hai un prodotto di qualità bassa, tarato sull’ascolto italiano».

Che Mediaset abbia cominciato a fare i conti con la fissità è evidente guardando i nomi dei programmi: Grande Fratello, Amici di Maria, Le Iene e così via. Anche un patriota come l’anonimo autore del blog “Il Biscione”, dirigente di Mediaset in azienda dalla fine degli anni Ottanta, ha alzato grida di dolore sulla mancanza di coraggio, di inventiva, di capacità di fare innamorare nuovamente un pubblico giovane. Mal di pancia che sono culminati con una durissima, per quanto costruttiva, lettera aperta a Pier Silvio Berlusconi. Il capo impalpabile, la cui autorevolezza è minata anche dalla scarsa presenza e dall’eccesso di delega. «Lei vede nei figli il segno del fondatore?» affonda il dito nella piaga Doglio. «È gente abituata a crescere al sicuro, in una posizione sempre protetta dalla politica. Sono cresciuti in Italia e in Spagna, dove c’erano i governi non ostili di Gonzales prima e Aznar poi. Mentre in Francia e Germania, dove hanno avuto un’opposizione dura, sono stati buttati fuori in tempi rapidi». Nella situazione politica odierna italiana, aggiunge Balassone, «Mediaset ha la necessità di riconquistare il Paese, e non solo quelli che per 20 anni sono stati i tifosi di Berlusconi. Ma se le aziende possono essere vendute, non c’è nulla di più difficile che mutare pelle».

«Mediaset ha la necessità di riconquistare il Paese, e non solo quelli che per 20 anni sono stati i tifosi di Berlusconi. Ma se le aziende possono essere vendute, non c’è nulla di più difficile che mutare pelle».


Stefano Balassone, ex cda Rai

Di certo, se vuole avere un futuro, Mediaset dovrà attrezzarsi di più sul digitale. Quella che è stata un’azienda rivoluzionaria sul fronte del linguaggio e leader in Europa per modello di business, oggi sul digitale va al traino. «Ha una buona presenza su Internet, ma è ben lontana dal top in Europa. Visto che il mondo va in quella direzione, vedo dei problemi non nel lungo ma nel medio periodo», commenta Gambaro. Per ora la società mette le toppe. La concessionaria Mediamond (50% Mediaset e 50% Mondadori) il 3 febbraio ha siglato un accordo con Yahoo che dovrebbe consentire al gruppo di salire nel ranking di Audiweb a ridosso di Google e Facebook: le previsioni sono di 21,2 milioni di utenti unici al mese, con una base di 5,3 milioni giornaliera. Altre voci circolate nei giorni precedenti parlavano invece di un interessamento di una società Fininvest, probabilmente Mondadori, per alcune testate del gruppo Banzai (che tra gli altri ha i siti Giallo Zafferano, Pianeta Donna e Il Post). Dello scorso ottobre era invece l’accordo con Youtube sui contenuti messi a disposizione per lo streaming sulla piattaforma, arrivato dopo otto anni di contenzioso. Se questo sarà sufficiente lo diranno i prossimi anni.

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