La missione, una delle missioni possibili, parte da una vacca da latte. Siamo in un Paese dell’Africa sub-sahariana, dove la produzione di una mucca è tra i 5 e i 10 litri di latte al giorno. In Pianura Padana, per fare un confronto, è tra i 30 e i 40 litri. La differenza sta nella qualità e nella quantità di mangime: questione di costi ma anche di tecnologie. In questo Paese c’è un master in gestione delle imprese, o Mba. Lo tiene una fondazione senza scopo di lucro, che ha contatti con un’università italiana e con un ateneo locale. Al master partecipano imprenditori o aspiranti tali, con una buona idea e con un minimo di esperienza alle spalle. Tra questi ne viene selezionato uno. Metà del costo del suo master viene pagato da un’impresa italiana. In cambio, lo studente-imprenditore stenderà un business plan per l’azienda italiana per un’attività da svolgere nel suo Paese. Sono quelli che possono portare la vacca a produrre i famosi 30-40 litri di latte al giorno. L’imprenditore africano può collaborare con la società italiana o creare una sua impresa che avrà a che fare con l’azienda italiana. Se farà acquisti, l’azienda italiana sarà rimborsata subito e l’azienda africana potrà pagare a rate, a prezzi inferiori rispetto a quanto otterrebbe da una banca locale.
È questo, in estrema sintesi, il meccanismo di un progetto che mette in contatto le imprese italiane e quelle africane in modo del tutto nuovo. Lo hanno messo in piedi tre enti. Il primo è quello che si occupa della cultura d’impresa, e che organizza i master: si chiama E4Impact, una fondazione lanciata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e che opera in otto Paesi dell’Africa sub-sahariana, in un network con le università di tali Paesi. Gli altri fondatori, oltre alla Cattolica, sono Securfin, Mapei e Salini-Impregilo. Già da tempo operano con il programma First-Step Africa, che, appunto, propone alle imprese italiane una partnership con un talento africano che durante l’anno di Master aiuterà l’impresa a entrare nel mercato locale.
Quello che è cambiato, dallo scorso 11 febbraio, è che è stata siglato un accordo con un altro operatore: il Parco Tecnologico Padano di Lodi, un incubatore di imprese tecnologiche che operano nel settore agricolo. È dalle imprese “incubate” che viene la tecnologia di cui l’Africa ha bisogno. La terza gamba dell’intesa vede coinvolta la Sace, la società (pubblica) italiana di credito all’esportazione, che nell’ultimo anno ha visto aumentare del 63% la sua esposizione in Africa subsahariana. Oggi supera il miliardo di euro. Nel programma con le imprese apre le porte nei rapporti con le istituzioni locali e dà supporto finanziario.
«L’idea alla base di tutto il progetto è di sviluppare in maniera diversa dal passato l’export e l’internazionalizzazione delle imprese verso l’Africa. Come italiani abbiamo sempre approcciato l’Africa con interventi spot legati al vecchio mondo delle cooperazione. Ora si tratta di ribaltare l’approccio»
Per Gianluca Carenzo, Direttore del Parco Tecnologico di Lodi, l’idea alla base di tutto il progetto è di «sviluppare in maniera diversa dal passato l’export e l’internazionalizzazione delle imprese verso l’Africa. Come italiani abbiamo sempre approcciato l’Africa con interventi spot legati al vecchio mondo delle cooperazione. Ora si tratta di ribaltare l’approccio». Negli anni passati, aggiunge, le imprese italiane sono rimaste indietro mentre avanzavano non solo quelle cinesi ma anche quelle tedesche e soprattutto olandesi. Ora c’è da sfruttare l’eredità di immagine di Expo 2015, dove la presenza di tanti Paesi africani nei vari cluster tematici (o con grandi padiglioni, come nel caso dell’Angola) hanno creato dei nuovi legami. «Durante l’Expo abbiamo avuto conferma di quanto vasta sia la domanda di innovazione e tecnologie per aumentare produttività e sostenibilità dell’agricoltura», spiega Carenzo.
All’incontro di presentazione dell’accordo, l’11 febbraio, erano presenti una trentina di aziende italiane del settore agricolo legate al Parco tecnologico di Lodi. Tra queste alcune del lodigiano. Ci sono la Solana, industria conserviera del pomodoro, la Sgariboldi, che si occupa di macchinari per la zootecnia. E la Sivam di Casalpusterlengo, quella che potrebbe portare le vacche a produrre 30 o 40 litri di latte al giorno.
«Per noi è importante che l’azienda partner italiana paghi la metà del master e non tutto. Vogliamo che l’imprenditore africano investa anche lui. Le imprese italiane devono trovare come controparte una persona che creda nel progetto»
A differenza di altri tipi di investimenti in Africa, si presenta con un plus: ha l’obiettivo di creare competenze in loco. «In questo momento nei Paesi dell’Africa sub-sahariana c’è grande liquidità e volontà di investire. Quello che manca sono le competenze», spiega Frank Cinque, direttore generale di E4Impact, fondazione che vede come presidente l’ex sindaco di Milano Letizia Moratti. Le competenze, aggiunge, si devono sposare allo spirito imprenditoriale. «Per noi è importante – aggiunge – che l’azienda partner italiana paghi la metà del master e non tutto. Vogliamo che l’imprenditore africano investa anche lui. Le imprese italiane devono trovare come controparte una persona che creda nel progetto». Se le difficoltà a livello macroeconomico in molti Stati africani si fanno sentire, a causa del crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, conclude, «se si guardano le opportunità per le Pmi e la crescita della classe media, siamo ancora in una fase di sviluppo».
Anche dalla Sace invitano a non farsi prendere dalla paura, di fronte alla frenata delle economie africane a seguito del crollo del petrolio e delle altre materie prime. «La nostra visione è che non c’è un’inversione di tendenza tale da azzerare i progressi fatti in precedenza – dice Alessandro Terzulli, Chief economist di Sace -. Ci sarà un rallentamento dovuto a fattori esogeni, ma rimarranno i fattori di sviluppo endogeni che si sono manifestati negli scorsi anni: dallo sviluppo demografico alla crescita del capitale umano». Quando si parla di Africa sub-sahariana si parla di 49 Paesi con caratteristiche molto diverse, sia quando crescono che quando rallentano. Un Paese come l’Angola, fortemente dipendente dal petrolio, spiega Terzulli, ha necessità di diversificare gli investimenti e presenta opportunità per le aziende italiane di trasformazione dei prodotti agricoli. Ci sono poi Paesi che in modo centralizzato stanno lanciando programmi di meccanizzazione agricola, come il Mozambico. La scelta può andare sui prodotti cinesi a basso costo ma anche su quelli di qualità superiore, tedeschi o italiani: si parla di impianti per la lavorazione di caffè, the o succhi di frutta, ma anche di frigoriferi industriali. Così succede anche in Kenya, dove la Sace ha stretto un accordo con la Kerio Valley Development Authority e la Moi University di Eldoret per lo sviluppo di un grande progetto zootecnico in Kenya. Una serie di aziende italiane sono coinvolte per creare una fattoria con tecnologie avanzate ed energeticamente indipendenti.