Le quattro vite di Johnny Cash

Il Re della country music, nato la prima volta nel 1932, rivive nei disegni del fumettista tedesco Reinhard Kleist che riesce in questi giorni in Italia con "Cash – I see a darkness", pubblicato da Bao publishing

La prima volta che Johnny Cash venne al mondo il suo nome non era ancora Johnny Cash. Era il 26 febbario del 1932 e lui si chiamava con sole due iniziali: J. R.. La vita di J.R., iniziata nei campi di cotone della piantagione del padre in Arkansas, finì in una base militare dell’Air Force statunitense, dove J.R. dovette scegliersi un nome, John, visto che le iniziali non andavano a genio all’esercito americano.

La prima vita di Johnny Cash fu faticosa, povera e dolorosa, con pochi e selezionati momenti di gioia. Lavorava nei campi di cotone tutto il giorno con i fratelli e i genitori, ascoltava la radio sognando il giorno in cui sarebbe stata la sua, di voce, a risuonare dall’apparecchio. Nel 1944 morì il fratello Jack, dopo una dolorosa agonia durata una settimana. Dopo la morte del fratello, J.R. imparò a suonare la chitarra. Stava per iniziare la sua seconda vita.

La seconda volta che Johnny Cash venne al mondo fu in uno studio di registrazione, nel 1955, quando, per la seconda volta, cambiò il suo nome. Questa volta non era la burocrazia di un esercito a imporglielo, ma la sua stessa creatività. Fu davanti al produttore Sam Philipps, lo stesso che aveva lanciato Elvis Presley, che John R. Cash, firmando un contratto con la Sun Records di Philipps, divenne Johnny Cash.

Il sogno di J.R. era diventato realtà e la strada del successo si aprì di fronte a Cash, ma era meno luminoso di quanto probabilmente sognava il piccolo J.R.. Tra una data e l’altra Cash era sempre in giro. Iniziò a fare uso di anfetamine e tranquillanti. Quella vita pazza durò un decennio, tra il 1957 e il 1967, anno in cui venne arrestato per la terza volta per droga.

C’è un punto privilegiato, più alto di tutti, dal quale osservare la vita di Johnny Cash. E ovviamente è un palco. È il palco allestito nella mensa della prigione di Folsom, in California, il 13 gennaio 1968.

La terza volta che Jonny Cash venne al mondo fu in una caverna, nel 1968. Era esausto, al limite delle forze fisiche e mentali. Aveva cercato di smettere, anche aiutato da June, ma senza successo. In realtà in quella caverna Johnny Cash voleva morire, ma anche in quel suo proposito fallì. Arrivò in fondo alle tenebre, ebbe paura, e ritornò in superficie.

C’è un punto privilegiato, più alto di tutti, dal quale osservare la vita di Johnny Cash. E ovviamente è un palco. È il palco allestito nella mensa della prigione di Folsom, in California, il 13 gennaio 1968. Su quel palco improvvisato Johnny Cash si presentò due volte, una alle 10 del mattino l’altra all’una del pomeriggio, ripetendo per due volte una scaletta che venne registrata e spedita direttamente alla storia sotto il titolo di Live at Folsom Prison.

In Cash – I see a darkness, stampato da Bao publishing in questi giorni in versione riveduta e ampliata, il fumettista tedesco Reinhard Kleist parte proprio da quel palco, anzi, ancora meglio, parte sceneggiando una canzone centrale per Johnny Cash. È Folsom Prison Blues, un brano registrato nel 1955, che Cash suonò come prima canzone quella mattina a Folsom, subito dopo aver ripetuto la sua celebre presentazione baritonale a quel pubblico di ladri e assassini che tanto amava: «Hello, I’m Johnny Cash».

Nell’efficace racconto orchestrato da Kleist ci sono tutti questi ingredienti, più un altro, fondamentale. Sì, perché la stella di Johnny Cash si oscurò anche dopo quella sue terza incredibile rinascita, fino quasi a spegnersi nei primi anni Novanta, quando Cash nacque per la quarta volta. Era un giorno di inizio anni Novanta e Cash venne contattato da Rick Rubin, uno che quando Cash cantava dal palco a Folsom aveva appena 5 anni. Rick era un produttore, ma non esattamente di musica contry. Aveva lavorato con Beastie Boys, LL Cool J, Public Enemy, Slayer, Red Hot Chili Peppers e in quel momento contattava Johnny Cash per sottoporgli un’idea. Gli propose di registrare un album da solo, accompagnato soltanto dalla sua chitarra. Si sarebbe chiamato American Recording. Dentro ci sarebbe state alcune canzoni dello stesso Cash e alcune cover — Bird on a wire di Leonard Cohen, Down There by the Train di Tom Waits, Why Me Lord di Kris Kristofferson, tra le altre.

Cash accettò e si mette al lavoro. Quando venne pubblicato, il 26 aprile del 1994, fu un successo, tanto che quell’album passò alla storia come American I, e a quello seguirono negli anni successivi American II, III, IV, V e VI.

Il 17 ottobre uscì il terzo di quegli album, American III: Solitary Man. La sesta traccia di quell’album si intitolava I see a darkness. L’aveva scritta un giovane cantautore di nome Will Oldham, più conosciuto con uno dei suoi pseudonimi, Bonnie Prince Billy. È una canzone potentissima, che parla di inquietudine, di amicizia, di tenebra. È una delle canzoni più potenti che Oldham ha nel repertorio, ed è perfetta per Johnny Cash, tanto perfetta da finire sotto il suo nome in questo viaggio nelle tenebre disegnato da Reinhard Kleist.

«I hope that someday, buddy
we’ll have peace in our lives,
together or apart, alone or with our wives.
We can stop our whoring
and pull the smiles inside
and light it up forever
and never go to sleep.
My best unbeaten brother,
this isn’t all I see.

Oh, no… I see a darkness».

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