Tendenzeonline Made in Italy, così è possibile fare meglio

Per il mondo agricolo e la distribuzione è arrivato il momento di ragionare di più insieme. Con una consapevolezza: senza un accordo su come semplificare le filiere e dare stimoli all’innovazione, oppure molte filiere scompariranno. Il ruolo dell’associazione GS1 Italy per favorire la collaborazione

Quale sia stato il momento in cui si è diffusa la consapevolezza che la filiera agricola, industriale e distributiva dovesse riconsiderare il proprio sistema di relazioni, è difficile stabilirlo. Sta di fatto che questa consapevolezza si è formata nel sistema vitale e competitivo dell’agroalimentare italiano che, meglio di altri, ha superato gli anni della crisi. Oggi siamo all’inizio di un processo nel quale gli attori coinvolti sembrano impegnati a rimettersi in gioco, anche se assisteremo a qualche fuga in avanti, a qualche frenata e a una successiva ripartenza.

Già il 48esimo Rapporto Censis aveva individuato la necessità di un ordine sistemico che intervenisse sulla società liquida: «Senza ordine sistemico, i singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine: vale per il singolo imprenditore come per la singola famiglia. Tale estraneità porta a un fatalismo cinico e a episodi di secessionismo sommerso, ormai presenti in varie realtà locali», si legge nel Rapporto. L’idea di “fare sistema” ci ha accompagnato per oltre un decennio sempre indicato come necessità e raramente veramente attuato. La narrazione di Expo Milano 2015 l’ha eletto a modello, ora non più rimandabile per le condizioni in cui le imprese si trovano a operare, e la forma più idonea e più pragmatica, per quanto riguarda il sistema agroalimentare, sembra essere quella della collaborazione di filiera.

Semplificare le filiere

Le ragioni economiche di tale necessità (o almeno una parte di esse, ma sostanziale) le spiega Roberto Della Casa, docente di marketing dei prodotti agroalimentari e gestione delle imprese agroalimentari dell’Università di Bologna, quando afferma che la distribuzione moderna è cruciale per il mondo agricolo. Secondo Della Casa, che ha svolto una ricerca accurata su dieci circoscrizioni economiche e territoriali di natura distrettuale, nell’ultimo triennio la Gdo ha apportato 127 milioni di euro in più, contro i 100 persi negli altri canali, ma, aggiunge, «siamo alla presenza di filiere dominate dai costi». Per i dieci distretti individuati, di cui nove producono Dop e Igp, che generano il 61% del proprio fatturato in Gdo, i fattori critici di successo variano da una filiera all’altra (si va dalla pera abate dell’Emilia Romagna alle arance rosse di Sicilia, alle mele dell’Alto Adige al Parmigiano Reggiano, per citarne solo alcune). Ma, in sintesi, sono riconducibili a dover raggiungere livelli di concentrazione della produzione (da leggere come aggregazioni tra imprese a prescindere dalla forma giuridica) in grado di destinarla all’esportazione.

Fare Meglio Italiano – La testimonianza di Marco Pedroni – presidente Coop Italia e presidente di GS1 Italy

 https://www.youtube.com/embed/de2yl3aI6_Y/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Se infatti il problema è quello della redditività della filiera, non ha senso concentrarsi sul prezzo, ma occorre cercare sbocchi all’estero, come alcuni casi di successo insegnano. «Dobbiamo aumentare la capacità di esportare – afferma Della Casa – e mai come ora la distribuzione, attraverso la Mdd, può svolgere un ruolo attivo nella ricerca e individuazione di nuovi target, nello sviluppare un marketing dell’esperienza, nel lavoro comune con l’agroindustria per ridefinire alcuni processi, studiare dei packaging intelligenti, sviluppare una logistica integrata».

«È arrivato il momento – afferma Francesco Pugliese, presidente di Adm e amministratore delegato di Conad – che mondo agricolo e distribuzione ragionino meglio e di più insieme per uscire senza prevaricazioni dall’attuale situazione. O ci mettiamo d’accordo su come semplificare le filiere e dare stimoli all’innovazione, oppure molte filiere scompariranno». E il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo si chiede: «Come vogliamo giocarci il futuro? In chiave tattica, badando solo al prezzo, oppure elaborando una strategia per valorizzare gli elementi veri del cibo italiano?». Le questioni in gioco sono fondamentali: si va dalla competizione internazionale dei prodotti italiani, alla qualità degli alimenti che si portano in tavola, alla sicurezza per i consumatori, alla legalità e alla sostenibilità sociale e ambientale.

Nell’ultima edizione dell’Osservatorio economico di GS1 Italy si segnala che per il 60% delle imprese manifatturiere e Gdo sarebbe utile valorizzare la filiera alimentare attraverso un “modello italiano” basato su tradizione-cultura-modernizzazione che possa essere riconosciuto anche all’estero, oltre a predisporre interventi mirati ad attrarre investimenti e a sostenere l’export (62% dei rispondenti). (VEDI FIGURA 1).

«È arrivato il momento che mondo agricolo e distribuzione ragionino meglio e di più insieme per uscire senza prevaricazioni dall’attuale situazione. O ci mettiamo d’accordo su come semplificare le filiere e dare stimoli all’innovazione, oppure molte filiere scompariranno».


Francesco Pugliese, presidente di Adm e amministratore delegato di Conad

«L’industria dei beni di consumo – afferma Roberto Bucaneve, direttore del centro studi di Centromarca e procuratore di Ibc – rappresenta il 22% della produzione industriale, il 23,9% dell’occupazione complessiva, il 23,7% del valore aggiunto e pesa il 5% del Pil nazionale, ma questo peso non è riconosciuto dalle istituzioni. La crisi di questi anni, poi, ha depauperato la capacità competitiva di questo settore industriale (-14% il calo dell’occupazione, -10% gli occupati). C’è il rischio di una perdita di tenuta di una parte importante del tessuto economico e produttivo italiano».

Come fare riacquistare vigore, allora, alla fabbrica dei consumi? Utilizzando l’unica leva che l’industria italiana ha a disposizione: puntare a prodotti di maggiore qualità e occupare nicchie della fascia alta perché l’industria italiana ha capito che non può competere a livello globale sul prezzo. Lo affermano anche i consumatori intervistati da Ipsos, per i quali il prezzo è sì importante nel guidare gli acquisti, ma al primo posto vi è la qualità. È però una qualità declinata non solo nel valore intrinseco, ma in tutti i valori intangibili, come la produzione italiana, la marca, la sostenibilità. Sull’export il sistema agroalimentare si sta compattando grazie ai successi crescenti sui mercati internazionali, favoriti dai riflettori puntati per sei mesi su Expo, e all’identificazione da parte delle istituzioni di precisi obiettivi di crescita.

Fare Meglio Italiano – La testimonianza di Vito Gulli – presidente Generale Conserve

 https://www.youtube.com/embed/Zpuppf900iQ/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Tuttavia rimangono aperte questioni importanti.

La prima, sollevata dal grande successo di pubblico di Expo riguarda proprio i vantaggi che ne derivano al sistema agroalimentare. A porsi questa domanda è il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, che riflette sulla differenza tra il valore della cronaca della manifestazione e del suo racconto. È cronaca, secondo il sociologo, il fatto che Expo si sia rivelato un concentrato di sagre, che in sostanza i visitatori l’hanno visitato per andarvi a mangiare, a provare le cucine del mondo. Expo ha quindi ribadito la preminenza della gastronomia e della leadership della gastronomia italiana nel mondo. È però una dimensione esterna della questione. «Perché – spiega De Rita – una cosa è definire l’export agroalimentare italiano come è stato per l’industria manifatturiera nei decenni passati, all’interno di una dimensione strutturale, di racconto, appunto. Sull’agricoltura, invece non viviamo sull’affermazione della nostra capacità, ma al traino della gastronomia. Credo che il giorno in cui dovesse rompersi il legame tra appeal gastronomico e industria alimentare, potremo avere delle serie difficoltà. Il giorno in cui avverrà uno scandalo culinario a Roma, ci saranno problemi per tutta l’industria alimentare italiana. Non bisogna sottovalutare gli aspetti relativi alla sicurezza, alla paura delle persone, tanto più che tutto sarebbe enfatizzato dalla cronaca. La cronaca è stata “andiamo a mangiare a Expo”, è stata la movida dell’Albero della vita. Il racconto è stato il sistema agricolo che cambia. Noi abbiamo assistito a Expo a uno sfondamento a valanga della cronaca. La cronaca ha preso il sopravvento sul racconto e ha relegato in un angolo i contenuti, l’elaborazione strutturale di Expo».

«Credo che il giorno in cui dovesse rompersi il legame tra appeal gastronomico e industria alimentare, potremo avere delle serie difficoltà. Il giorno in cui avverrà uno scandalo culinario a Roma, ci saranno problemi per tutta l’industria alimentare italiana»


Giuseppe De Rita, presidente Censis

La seconda riguarda il senso da attribuire al concetto di italianità del prodotto, nel Made in o del Made by, dell’italianità o dell’italicità del prodotto, come afferma Piero Bassetti, presidente di Globus e Locus con il suo ultimo libro “Svegliamoci, Italici!”, secondo il quale sono italiane le persone che vivono dentro i confini di un paese che si chiama Italia, o che hanno un passaporto italiano. Italici sono invece tutte le persone che, a vario titolo, «entrano in contatto con la nostra cultura, con ciò che definisce il nostro modo di vivere e che in qualche modo ne sono cambiate. Gli italiani sono circa 60 milioni. Gli italici, se consideriamo quelli che oggi chiamiamo i cervelli in fuga, gli emigrati, i loro figli e nipoti “meticci” arrivano a essere 200 milioni». Ne consegue che il finto Parmigiano Reggiano e tutti i prodotti italian sounding sono degli ambasciatori inconsapevoli del nostro modo di produrre e di vivere. «Noi dovremmo vendere e promuovere ciò che viene fatto all’italiana, dagli italici», è l’idea di Bassetti. «Pensare che l’italian sounding sia un “ambasciatore inconsapevole” del nostro modo di produrre e di essere nel mondo – ribatte il presidente dei Giovani Industriali di Confindustria, Marco Gay – significa affidare l’immagine dell’Italia a luoghi comuni, alla sottoqualità, alla contraffazione. L’italian sounding produce ogni anno un fatturato di circa 60 miliardi di euro, una forma eclatante di concorrenza sleale rispetto alle imprese italiane e, purtroppo, anche un esempio del fallimento delle nostre istituzioni, non solo dell’Italia ma in primis dell’Europa, che non è riuscita a negoziare al di fuori del mercato interno norme per contrastare l’usurpazione del marchio e la tutela del Made in».

Fare Meglio Italiano – La testimonianza di Piero Bassetti – presidente Globus et Locus

 https://www.youtube.com/embed/1ilqokhMLxI/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Il finto Parmigiano Reggiano e tutti i prodotti italian sounding sono degli ambasciatori inconsapevoli del nostro modo di produrre e di vivere. Piero Bassetti: «Noi dovremmo vendere e promuovere ciò che viene fatto all’italiana, dagli italici»

Acquista allora grande valore come primo momento di sintesi l’iniziativa #Faremeglioitaliano organizzata da GS1 Italy che ha scelto Expo Milano 2015 come luogo di lancio. «GS1 Italy è uno spazio di dialogo e di collaborazione – spiega i motivi di questa iniziativa il presidente di GS1 Italy e di Coop Italia, Marco Pedroni – e agisce su terreni pre-competitivi con i progetti di condivisione delle informazioni e delle immagini di prodotto, con le proposte di logistica collaborativa, con l’aggiornamento degli strumenti di gestione degli standard. Dialogo, collaborazione, condivisione sono le nuove parole di un settore in enorme cambiamento, quello agroalimentare. Nel nostro caso significano favorire l’approfondimento delle attività utili a tutti gli attori della filiera, progetti in grado di creare un valore aggiunto più grande per l’intero sistema, senza alterare le dinamiche competitive tipiche del mercato. Come GS1 Italy ci proponiamo di svolgere un ruolo di facilitatore delle relazioni che precedono lo scambio non solo delle merci, ma anche delle conoscenze».

Le ragioni dell’ecosistema

L’urgenza di uscire dall’isolamento a favore di un sistema di integrazione tra attori si spiega in questo modo: in un ecosistema i singoli soggetti mantengono la propria autonomia gestionale ma sono tenuti insieme da uno schema organizzativo e da una fitta rete di legami e di relazioni che gli consente di muoversi come un’unica impresa. Ragionare in prospettiva sistemica e secondo una logica di rete, significa comprendere la propria identità come parte di un ecosistema multidimensionale, dotato di strutture concettuali e di parole chiave, di comportamenti del tutto diversi da quelli conosciuti e attivati in dimensioni solitarie. «Questo cambio di prospettiva – afferma il filosofo dell’innovazione Giorgio Di Tullio – permette di introdurre sistemi di previsione e di regolazione dell’entropia (disordini: opacità, pressione promozionale, eccesso di omologazione) proprio agendo sul margine dei diversi layer. Agire sugli spazi infra significa regolare, tra i diversi protagonisti, le dipendenze reciproche e stabilire codici comuni di ingaggio». Quello che serve oggi è un salto di qualità che consenta di rispondere in tempo reale al bisogno di maggiore produzione, con più efficienza, più equità nella distribuzione e soprattutto più sostenibilità. (…)

Articolo tratto dal volume “Un anno di Tendenze”, a cura di GS1 Italy. Continua a leggere su Tendenzeonline.info

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter