TaccolaPaola Navone: «Non saranno le barriere a salvare il Made in Italy»

Parla la designer, ospite d‘onore alla Fiera di Francoforte: «Le piastrelle cinesi tecnicamente sono come le nostre. La differenza la fa il design. Ma per mantenerlo vivo dobbiamo avere il coraggio di creare ponti con le altre culture. Erigere barriere non serve. E non si può vivere di amarcord»

FRANCOFORTE – «In Italia la vita è meno dolce». Paola Navone parla alla fiera di Francoforte, davanti a una delegazione di giornalisti, designer, studenti e autorità. È la star di Ambiente, che è la principale fiera di beni di consumo al mondo. L’Italia è il Paese ospite dell’anno, ci sono il console, la canzone Caruso, l’attore italo-tedesco Mario Adorf e i dirigenti di Messe Frankfurt. La designer ha appena incassato gli applausi per la sua mostra “Dolce Vita”: tre banconi, verde, bianco e rosso, con sopra oggetti iconici (ma anche comuni) del design italiano degli stessi colori. Tutti si aspettano la celebrazione del Made in Italy da chi ne è stata una delle maggiori interpreti degli ultimi 40 anni.

Invece più che una celebrazione arriva un monito: «L’Italia è un Paese di charme, dove tutti vogliono venire, il cui cibo è amato da tutto il mondo – premette -. Ma dobbiamo darci da fare perché l’affetto si rinforzi e non svanisca, perché gli affetti svaniscono». Per questo, aggiunge a Linkiesta, «bisogna stare attenti», perché si rischia di «adagiarsi», pensando che noi siamo bravi comunque a far le cose e gli altri possono solo stare ad applaudirci. L’archietto torinese, classe 1950, modi gentili e autoironici lontani da quelli gelidi delle archistar, avrebbe tutti i motivi di guardare indietro: è stata vincitrice del premio International Design Award di Osaka, già nel 1983, ha animato il gruppo di avanguardia Alchimia, assieme a nomi del calibro di Ettore Sottsass, e ha collezionato innumerevoli collaborazioni e riconoscimenti. Ma è la prima a dire che bisogna cambiare passo: «Non si può immaginare di vivere di amarcord, bisogna oggi avere la lucidità di pensare a come sviluppare questo lavoro per domani». Linkiesta ha avuto modo di raggiungerla durante la fiera.

Lei ha ricordato che oggi i prodotti e il cibo italiano hanno grande popolarità in tutto il mondo. C’è il rischio che tutta questa celebrazione del Made in Italy ci faccia dormire suglil allori e risvegliare bruscamente?

Sì, ci siamo un pochino adagiati su questo mito del design, del Made in Italy.

Perché ci siamo adagiati?

Perché c’è questa cosa di dire «comunque siamo i più bravi». Bisogna però stare attenti. Io ho vissuto il periodo in cui decine di manager italiani andavano in Cina a vendere tonnellate di impiantistica dicendo “tanto noi siamo bravi, i cinesi non sanno fare niente, non sapranno neanche far funzionare le macchine”. Ora le fanno funzionare e le piastrelle cinesi sono più belle delle nostre. O meglio: sono a un livello tecnico buono, poi magari non hanno il plus del design.

A proposito: c’è ancora una differenza qualitativa tra la produzione che si realizza in Italia e quella che si fa all’estero?

Dipende dal prodotto. Il vetro di Murano è solo di Murano. Se invece parliamo di industrie, c’è stato un grande miglioramento nei Paesi emergenti, dove si producono oggetti più che decenti. La differenza la fa il design. Non tutti si rendono conto che ha un valore economico forte ed evidente.

«I manager italiani andavano in Cina a vendere tonnellate di impiantistica dicendo “tanto non sapranno neanche far funzionare le macchine”. Ora le piastrelle cinesi sono più belle delle nostre. O meglio: sono a un livello tecnico buono, poi magari non hanno il plus del design»


Paola Navone

Per fortuna nella nostra storia ce ne siamo accorti eccome.

L’Italia ha avuto la fortuna di avere un gruppo di produttori che hanno capito tutto questo subito dopo la guerra. Da loro è nato il design italiano, che ora è un pochino mitizzato. Non c´erano scuole, siamo tutti architetti e abbiamo inventato le cose da zero.

Ma questo è un fatto storico che rischia di esaurirsi? Nella moda sempre più marchi sono stati venduti a soggetti stranieri. È un tema che si pone anche nel design?

Sì, è un tema che si comincia a porre nel design. Ma non si può immaginare di vivere di ricordi.

Abbiamo la potenzialità di evitare il declino?

C’è una potenzialità negli operatori, bisogna avere la lucidità di pensare a come sviluppare questo lavoro per domani e non vivere di amarcord. Ma bisogna imparare anche a relazionarsi allo sviluppo degli altri Paesi, capirli, essere anche più curiosi di quanto tante volte non siamo.

Per arrivare dove?

Le culture si possono integrare. Io, avendo vissuto tanto nel Sud Est asiatico, continuo ad avere relazioni con questi Paesi. Sono riuscita tante volte a fare un marriage tra aziende italiane per cui lavoro e piccoli produttori dell´Asia che fanno cose che in Italia comunque non si potrebbero fare. Anche trovare questi incontri fa parte della genialità italiana.

«C’è una potenzialità negli operatori, bisogna però avere la lucidità di pensare a come sviluppare questo lavoro per domani e non vivere di amarcord. Ma bisogna imparare anche a relazionarsi allo sviluppo degli altri Paesi, capirli, essere anche più curiosi di quanto tante volte non siamo»

Se, come ha sottolinato qualche giorno fa su Linkiesta Chiara Alessi, spesso i designer sono stranieri e la produzione si può spostare all’estero, cosa rende ancora speciali le nostre aziende?

L’apertura mentale e l’attenzione al mestiere del designer. Dopo la guerra l’Italia aveva bisogno di tutto e c’é stato un incontro magico: alcuni signori, che ho avuto anche la fortuna di conoscere, avevano un po´ di soldini e voglia di fare. Hanno incontrato al bar i loro amici architetti, che erano particolarmente bravi. Assieme si sono messi a fare questo lavoro: è nata un’alchimia speciale tra queste persone che stavano ricominciando a vivere una loro vita e questi professionisti che dovevano inventarsi un lavoro per campare. Questa accoppiata magica ha prodotto tutta una quantità enorme di piccole e medie aziende, che hanno avuto successo.

C’è il rischio che si perdano per strada saperi preziosi?

L’Italia può produrre cose straordinarie e queste vanno difese. Bisogna fare tutto il possibile per supportare le imprese italiane, ma anche gli artigiani. Ci sono tantissimi piccole fonti di produzione, aziende di famiglia che fanno delle cose che sanno fare solo loro. Sono veramente delle unicità. Questa cosa andrebbe supportata, più di quanto si faccia.

Per difendere le imprese è meglio costruire ponti o erigere barriere?

Costruire ponti, sempre. Le barriere secondo me alla fine fanno le crepe. Certo, ognuno deve proteggere i suoi prodotti e le sue cose. Ma a erigere barriere si fa poca strada.

«Per difendere le nostre imprese è meglio costruire ponti, sempre. Le barriere alla fine fanno le crepe»

Lei è da sempre un’estimatrice dell’artigianato. Può essere davvero il nostro futuro, magari se entra nei processi produttivi delle nostre fabbriche?

Un’unità produttiva in cui le cose vengono fatte in modo artigianale, quindi con le mani, ha sicuramente delle caratteristiche interessanti. Il fatto di produrre una cosa unica, come fanno gli artigiani, è positivo e va protetto, perché oggi questo in Italia va scomparendo e questo è sbagliato. Detto questo, però, anche l’industria ha tante cose che potrebbe imparare.

In che direzione?

L’industria spesso è un po’ sorda quando si parla di processi produttivi. Loro dicono «il processo produttivo è questo». Ma se io faccio entrare qualche piccolo incidente vengono fuori cose interessanti. L’industria può essere pronta a promuovere l’imperfezione. C’è anche un’altra cosa da dire: l´artigiano che entra nell’industria è un tema interessante perché i giovani cominciano a fare cose con le mani. Quando questa gente entrerà in contatto con l’industria avrà un approccio più soffice, più flessibile, non sarà rigida. Non vedo una retta che separa i due mondi.

«L’industria può imparare molto dall’artigianato. Se io faccio entrare qualche piccolo incidente in un processo vengono fuori cose interessanti. L’industria può essere pronta a promuovere l’imperfezione»

La tecnologia sta davvero cambiando radicalmente il modo di fare design, ad esempio con le stampanti 3D?

La tecnologia cambia radicalmente le cose. Prima un’azienda come Abet Laminati, dove ho staccato la mia prima fattura, per fare un prodotto doveva investire 3-400mila euro in cilindri. Quindi era impossibile fare cose su misura, si selezionavano dei semilavorati dove non si aveva possibilità di mettere le mani. Ora un progettista può dire «questo è quello che voglio» e l´azienda lo può fare. La stampante 3D è uno degli strumenti, non varrà per tutti. Ma di certo la tecnologia ci ha dato una libertà pazzesca. E sta provocando cambiamenti radicali anche nella struttura delle aziende: devono inventare nuovi modi di comunicare, nuovi modi di vendere. Il marketing deve inventare dei sistemi che siano compatibili con il nuovo modo di progettare. Fino a poco fa tutto questo era solo materia di sperimentazione, ora è la realtà in tutte le aziende.

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