Dopo la guerra: che vita hanno avuto i figli dei gerarchi nazisti

I crimini commessi dai genitori impongono un confronto. Alcuni hanno sposato le posizioni dei padri, difendendo il nazismo. Altri le hanno attenuate. Altri ancora le hanno rifiutate in toto

Le colpe dei padri non ricadano sui figli, ma al peso delle loro azioni è difficile sfuggire. Lo sanno, più di chiunque altro, i figli dei gerarchi nazisti. Al termine della guerra, durante i processi, la maggior parte di loro era molto giovane. Erano ragazzini, alcuni bambini. Molti del tutto all’oscuro di ciò che succedeva attorno a loro – vivevano, con i genitori, vicino allo chalet di Hitler, sul massiccio dell’Obersalzberg.

Come hanno vissuto la scoperta dei delitti inumani e incredibili compiuti dai genitori? Lo racconta Tania Crasnianski, autrice del libro Enfants de nazis, cioè figli di nazisti, uscito in Francia a marzo 2016. Le reazioni, come era prevedibile, sono state diverse. E oggi, quando le loro vite si stanno avvicinando alla parte finale della loro esistenza, si può trarre un primo bilancio comune: le azioni dei genitori li hanno condizionati in modo profondo. Sembrerà banale, ma è così. Ciò che è avvenuto in quei tempi si è protratto nelle scelte e nelle idee di persone che, con quel disastro avevano poco da spartire. Tranne un legame di sangue.

Gudrun Himmler (figlia di Heinrich Himmler, uomo chiave della Gestapo) e Edda Göring (figlia di Hermann Göring, maresciallo del Reich), hanno mantenuto una certa simpatia per il mondo nazista. Il padre è, per loro, una figura di culto. Negano la verità della “soluzione finale” e portano avanti l’ideologia nazista, curando le loro case-museo. Lo stesso fa Wolf Rüdiger Hess, che visiterà il padre in carcere a vita a Spandau per 102 volte, e ne sosterrà le posizioni. La sua condanna, spiega nel libro, non era giusta.

Il figlio di Hans Frank, il “macellaio di Cracovia” condannato a morte e giustiziato nel 1946, invece, odia la memoria dei genitori. Niklas Frank È nato nel 1939 e si è sempre tenuto lontano dal nazismo. Il padre, spiega, “era un poveraccio. Gli interessavano solo l’apparenza e i soldi” e le sue dichiarazioni sugli ebrei erano solo di facciata, “non credo fosse davvero antisemita. Se Hitler gli avesse chiesto di dire le stesse cose sui cinesi o i francesi, lo avrebbe fatto senza battere ciglio”. Martin Adolf Bormann junior, figlio di Martin Bormann, eminenza grigia del partito, ha preso la strada della fede. Se il padre si distingueva come fervente anti-cristiano, Martin jr. si farà prete nel 1958, fino a raggiungere un distacco sufficiente per valutarlo in modo freddo: “Non odio mio padre”, dice. “In molti anni ho imparato a distinguere mio padre in quanto individuo e mio padre in quanto politico e ufficiale nazista”.

Più complesso ancora è il caso di Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz e padre esemplare. Morirà impiccato nel 1947, proprio davanti al campo di concentramento. La figlia, modella e stilista Brigitte Höss, ha negato il ruolo del padre all’interno della macchina infernale dello sterminio. Obbediva agli ordini, dice. Poi ha cambiato posizione, non più negandolo ma ridimensionandolo. Non ha, in ogni caso, aderito al nazismo. Sempre ad Auschwitz operava Josef Mengele, medico famigerato per i suoi esperimenti. Il figlio, Rolf Mengele, è nato nel 1944. Appartiene alla sinistra radicale, e ha preso un sentiero molto lontano rispetto a quello della famiglia. Quando incontrò il padre, nascosto in una casa della banlieu di San Paolo, in Brasile, non riuscì a ottenere nessuna spiegazione, nessun chiarimento. Ma nonostante lo considerasse un estraneo, tanto da farsi cambiare il cognome, si rifiutò di fornire la minima indicazione che potesse portare al suo arresto. Sono contraddizioni, certo. Ma il legame del sangue ha sempre il suo peso.

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