Cosa potrebbe cambiare per l’Europa quando, a gennaio 2017, alla Casa Bianca di Washington si spalancheranno le porte al nuovo presidente degli Stati Uniti? Dopo la politica estera del disimpegno e delle proxy-war di Obama sarà il tempo del filo-putinismo, del “caos” o tornerà in auge il modello neo-conservatore dell’esportazione della democrazia? Trump, Clinton e Rubio sbandierano tre approcci assai diversi in politica estera. Tre approcci che, partendo dal Medio Oriente e dai rapporti con Mosca, potrebbe influenzare e mutare gli scenari europei.
Due Trump Tower si stagliano nei cieli della capitale turca di Instabul. Se il loro proprietario dovesse insediarsi a gennaio 2017 alla Casa Bianca di Washington quegli grattacieli potrebbero diventare un porto cruciale per la politica estera americana. Donald Trump ha spesso dimostrato apprezzamento per Erdogan così come ha ricoperto di lodi il principale rivale dell’aspirante sultanto di Ankara, Vladimir Putin. Per le relazioni tra Russia e Turchia sono mesi difficili, dopo l’abbattimento dell’aereo di Mosca e le sanzioni imposte dal Cremlino ad Ankara, accusata di favoreggiare i miliziani del Califfato in chiave anti-curda. Potrebbe essere questo il primo banco di prova per la politica estera del presidente Trump.
Ai tempi del Pentagono, la Clinton era tra i falchi, trasversali nei due partiti, a favore del sostegno dei ribelli siriani contro Assad e tra i sostenitori dell’intervento in Libia per cacciare Gheddafi
Sarebbe la lotta all’Islam ed in particolare allo Stato Islamico di Abu Bakr Al Baghdadi ad avvicinare molto Washington e Mosca, dopo otto anni di rapporti tesi tra Obama e Putin. Trump ha più volte sottolineato come il sostegno economico e strategico all’Europa – ma anche al Giappone e alla Corea del Sud – siano costati troppo all’America che non ne ha tratto sufficienti e proporzionati vantaggi: perché non farsi pagare allora?, si chiede Trump.
Sull’altro fronte c’è un Putin che scalpita per penetrare in maniera sempre più massiccia in Europa, tra interessi economici e strategici. Tra gli scenario più probabili c’è quello di una doppia intesa tra Stati Uniti e Russia: da una parte, officiante l’Iran, i due potrebbero trovare un accordo su un impegno russo in Siria e Iraq sostenuto dagli Stati Uniti, dall’altra Trump potrebbe concedere maggiori spazi a Putin sull’Europa. Rimanerebbe aperto però il fronte turco-americano. Ankara, da sempre ritenuta centrale dagli Stati Uniti in ottica NATO, verrebbe trascurata dagli Stati Uniti e lasciata in pasto a Russia ed Europa, cavalcando i sentimenti anti-islamici ed anti-turchi che stanno emergendo sempre più forti nel Vecchio Continente.L’ex candidato repubblicano Scott Walker si è sempre riferito alla politica estera della Clinton parlando di dottrina Obama-Clinton. Mossa intelligente per screditare la candidata democratica che, oltre ad essere parte del progetto fallito in Siria ed Iraq, ha più volte ribadito il sostegno alle aperture obamiane verso Cuba ed Iran.
Così facendo, anche per ragioni elettorali, Hillary ha cercato di evidenziare il continuum tra i due mandati dell’amministrazione Obama nelle relazioni internazionali, nonostante il suo addio dal Dipartimento di Stato e qualche critica al presidente (“non fare cose stupide”, il mantra obamiana, non è un “principio organizzatore” tipico delle grandi nazioni, ha dichiarato). Ai tempi del Pentagono, la Clinton era tra i falchi, trasversali nei due partiti, a favore del sostegno dei ribelli siriani contro Assad e tra i sostenitori dell’intervento in Libia per cacciare Gheddafi, con Francia ed Inghilterra. Due situazioni che, affrontate con troppa incertezza e debolezza come denunciano sul fronte repubblicano, pesano sull’avanzata dei miliziani di Al Baghdadi in Medio Oriente e hanno gettato nel caos le politiche estera delle nazioni europee, tra atlantismo e putinismo.Se dovesse rispettare le promesse elettorali, Rubio straccerebbe l’accordo con l’Iran entro i primi cento giorni di amministrazione, incrinando di conseguenza i rapporti con Mosca
Quella di Trump rappresenterebbe una svolta rispetto alla politica estera di Obama e della Clinton, ma anche rispetto all’approccio neo-conservatore e bushiano dell’esportazione della democrazia. Un approccio incarnato in questa campagna dal ritirato Jeb Bush e da Marco Rubio, senatore della Florida e oggi favorito dell’establishment.
Niente più surge, niente più grandi sforzi economici e strategici per garantire la sicurezza americana attraverso il sostegno alle forze democratiche locali. Se dovesse rispettare le promesse elettorali, Rubio straccerebbe l’accordo con l’Iran entro i primi cento giorni di amministrazione, incrinando di conseguenza i rapporti con Mosca e mettendo gli Stati Uniti davanti ad un bivio nella lotta all’Isis: isolazionismo o massiccio interventismo, che rivelanti implicazioni per l’impegno delle potenze europee. Previo dibattito nell’intellighenzia europea sui guerrafondi.