La Camorra avrebbe alterato attraverso alcuni medici i valori di Marco Pantani durante il Giro d’Italia del ’99, per non pagare le scommesse clandestine miliardarie effettuate sulla sua vittoria finale. Bum! O no? Calma.
Si potrebbe chiamarlo “Il paradosso del Pirata”. Una situazione dal limpido retrogusto gattopardiano. Tutto cambia, tutto resta com’è.
Partiamo dai fatti. Il 5 giugno del 1999 Marco Pantani sta per vincere il suo secondo Giro d’Italia, dopo il trionfo dell’anno precedente in accoppiata con il Tour de France. Ma un controllo svolto dall’Uci, l’Unione Ciclistica Internazionale, lo ferma a pochi metri dal traguardo. A Madonna di Campiglio quella mattina il Pirata non parte, ma scende dal sellino: nei test effettuati il valore della concentrazione di globuli rossi nel sangue è del 52%: un risultato che supera il margine di tolleranza dell’1% stabilito all’epoca, visto che il regolamento prevedeva un valore limite del 50%. Scatta la sospensione di 15 giorni, con conseguente esclusione dal Giro.
Un’esclusione non legata direttamente al doping: Pantani non venne trovato positivo. L’esclusione, secondo il regolamento, scattava per una forma di tutela nei confronti della salute di un corridore legata alla densità del sangue, che oltre una certa soglia può rivelarsi molto pericolosa. Quell’anno, nel frattempo, la Procura di Trento apre una prima indagine sull’esclusione di Pantani, ma il tutto viene archiviato. La parola doping invece è emersa dopo l’episodio di Madonna di Campiglio: a parlarne è stato ad esempio il ciclista spagnolo Jesus Manzano, che nel 2007 raccontò ad esempio di aver visto Pantani in attesa di essere ricevuto da Eufemiano Fuentes, medico spagnolo implicato in un clamoroso caso di doping nel 2006 che ha preso il nome di Operacion Puerto. Ne parlerà anche Christina Jonsson, ex fidanzata di Pantani, in un’intervista al periodocio svizzero L’Hebdo.
Ma è nel 2007 che le cose prendono una certa piega. Pantani è morti da tre anni, nel residence “Le Rose” di Rimini. Si parla di overdose da cocaina, tremendo vizio nel quale il ciclista era caduto per la depressione seguita a quell’episodio del ’99, ma c’è chi da subito (prima di tutti la madre Tonina), ritiene che possa essere stato fatto fuori. Da chi? Arriviamo quindi al 2007, come dicevamo: a novembre Vallanzasca fa recapitare alla signora Pantani una lettera, nella quale racconta che cinque giorni prima del fattaccio viene avvicinato in carcere da un personaggio che gli consiglia di puntare soldi sulla vittoria di qualcun altro a quel Giro, ma non di Pantani. Perché in un modo o nell’altro, gli fa sapere, la maglia rosa non l’avrebbe ottenuta lui.
E il modo potrebbe essere stato il sangue deplasmato di quella provetta maledetta. Ovvero, qualcuno potrebbe essere intervenuto per alterare il test. Un’ipotesi che troverebbe riscontro in altri due test effettuati da Pantani, la sera prima e il pomeriggio stesso, che hanno invece dato risultati nella norma. Si arriva quindi all’intercettazione diffusa da Premium Sport, nella quale nella telefonata tra un ex detenuto e una parente emerge quella verità che i tifosi del Pirata inseguono da anni: alla domanda se i test siano stati manomessi, arriva quel “Sì” atteso da quel giorno del ’99.
Ora cambia tutto, quindi? No. Non cambia nulla. Perché l’indagine su quanto avvenuto quel giorno è stata sì riaperta nel 2014 dal pm di Forlì Sottani: sono state sentite persone, esaminati fatti. Ma il tutto verrà archiviato. Già, perché il tutto è stato fatto fuori tempo massimo. La Procura manderà tutto in prescrizione, perché sono passati ben 17 anni. E perché “gli elementi acquisiti non sono idonei ad identificare gli autori dei reati ipotizzati”, scrive lo stesso Sottani. Forse abbiamo la prova regina dell’innocenza del Pirata, ma a livello penale non possiamo farcene granché.
Non cambia nulla per noi tifosi di Marco. Perché lo abbiamo sempre saputo, che con quella robaccia lì il Pirata non c’entrava nulla.
Non cambia nulla per noi tifosi di Marco. Perché lo abbiamo sempre saputo, che con quella robaccia lì il Pirata non c’entrava nulla. Lo abbiamo visto alzarsi leggero come una farfalla e pungere come un’ape nelle scalate che hanno spezzato le gambe ai più grandi. Era il più forte. Sì, ora avrà magari quella dignità che hanno cercato di togliergli, ma che in fondo non ci sono riusciti. Per noi era il più forte e quella dignità gli è rimasta addosso come quella maglia rosa che nel ’98 indossò e che stava benissimo con il giallo del Tour.
Non cambia per chi lo considera colpevole: sì vabbè le provette, la camorra, il solito complotto. Per chi è convinto fosse dopato, resta quell’ematocrito. Il suo sangue era marmellata e sempre lo sarà, punto.
Non cambia, a ben vedere, nemmeno la storia dello sport. Spesso ci aggrappiamo a questo, quando l’immagine di uno sportivo imbocca la via della riabilitazione. Marco non riavrà quella maglia rosa. E chi è rimasto in sella al suo posto spesso ha fatto cose che voi umani, che davanti al televisore avete cercato tra i pedali il suo erede, non potete immaginare. Uno di questi gli ha anche ceduto il passo sul Mont Ventoux. Non fu una vittoria regalata: Armstrong stava già imbrogliando e chissà che quel giorno, nel suo cuore di pietra accecato dalla voglia di vincere a tutti i costi, non si sia fatto spazio un briciolo di vergogna. Lui vinceva perché era forte, tu no caro Lance. Ma anche questo in fondo lo sapevamo già, abbiamo avuto la conferma qualche giorno dopo a Courchevel: non cambia nulla.
Per la madre? Sarà un cambiamento intimo, privato: vivrà più serena, potrà cercare spiragli nella giustizia a livello civile, ma lei la testa l’ha sempre tenuta alta e questo no, non l’ha mai cambiato.
Non cambia nulla per Marco, soprattutto. Che da dodici anni è morto.