La lotta di classe raccontata dai cartoni della Disney

Nei film e nei cartoni della compagnia cinematografica Usa i personaggi e le storie incarnano concetti sociali e politici precisi. Lavoro sodo e classi separate. E la povertà non dev’essere un problema

Lavorare è bello: te lo dice la Disney. È il risultato di uno studio condotto dai sociologi della Duke University, intitolato: Benign Inequality: Frames of Poverty and Social Class Inequality in Children’s Movies. Indagando il trattamento degli stereotipi di classe da parte della famosa compagnia cinematografica, hanno scoperto che rinforza alcuni concetti di base: ogni personaggio deve accettare il suo destino, almeno finché il suo impegno e il buon carattere non lo trarranno fuori dalla povertà.

È l’educazione dei cartoon. Come spiega al Guardian Jessi Straub, capo del team che ha seguito il progetto e ha guardato 36 film della Disney e Pixar (quelli che hanno totalizzato più di 100 milioni di dollari al botteghino), solo il 4% dei personaggi principali dei film può essere classificato come povero (e questo, però, è comprensibile: nelle fiabe e favole tradizionali che la Disney riprende i protagonisti sono quasi sempre nobili). E solo uno di loro, che appartiene alla classe operaia, si preoccupa dei soldi. Gli altri, cioè la quasi totale maggioranza, possono essere classificati come classe medio-alta se non alta (del resto, non tutti possiedono castelli di ghiaccio). Risultato: l’ineguaglianza è un bene.

Certo, non devono arrivare dalla Duke per dirci quello che chiunque abbia guardato qualche film della Disney (quasi tutti) sa già. È un mondo dove “essere poveri non è un problema. Lavorare rende felici, anche se tutti vogliono migliorare la propria condizione. Comunque, in caso di difficoltà, ci sono sempre persone ricche pronte a dare una mano”. Non funziona proprio così nella realtà. “La principessa si lamenta di una vita soffocante e Aladino del fatto di non sapere se il giorno dopo mangerà. Il film li mette sullo stesso piano” ed è l’idea che i bambini assorbono. All’età di 12 anni, dopo una visione ripetuta di film e cartoni, hanno interiorizzato il concetto.

Certo, sarebbe complicato mostrare nei film “persone povere che, pur lavorando, non riescono a farcela”. Per alcuni, è diseducativo. Visto che il 25% dei bambini negli Usa vive in una condizione di povertà, si pensa, è giusto lasciarli sognare: per la realtà c’è sempre tempo. È vero: ma anche i sogni, come le persone e come le classi sociali, non sono tutti uguali.

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