Quando, nel 1964, uscì Per un pugno di dollari, il primo film della Trilogia del dollaro di Sergio Leone, si parlava già da qualche anno di quel fenomeno cinematografico che avrebbe preso, di lì a poco, il nome di Spaghetti Western. Ma fu il misto di polvere, sudore, antiepica e antieroismo di Leone, Corbucci e degli altri a conquistare il pubblico e a dare al sottogenere la forza di far evolvere il genere Western.
Qualche anno dopo, nel 1971, il critico italiano Franco Ferrini si mise a fare una lista degli elementi che contraddistinguevano uno Spaghetti Western da un Western classico. C’entrava il trattamento di alcune situazioni e funzioni narrative, e il loro ribaltamento rispetto al genere classico. Il ritratto di quel sottogenere all’italiana del Western era fatto: produzioni più modeste, costi contenuti, poco moralismo, ancora meno epica e molta più violenza e cattiveria.
Quest’anno nel cinema italiano è successa una cosa simile a quella che successe nel 1964 e che fu descritta nel 1971. È uscito Lo chiamavano Jeeg Robot, diretto da Gabriele Mainetti e scritto da Nicola Guaglianone e Menotti, un film che ha tutte le carte in mano per prendersi delle soddisfazioni.
Lo chiamavano Jeeg Robot non è un capolavoro di un genere, cosa che in Italia basterebbe a farne una notizia. Lo chiamavano Jeeg Robot è soprattutto è un capolavoro che sposta il genere un passo di lato, e lo è perché questa roba in America non l’hanno ancora vista, forse non la vedranno mai, perché è puro Spaghetti Superhero.
Antiepico, antibuonista e spruzzato di pulp. Realizzato con costi bassi (1 milione e 700mila euro già ripagati in due settimane di programmazione in sala) ambientato ben oltre la periferia dell’Impero, a Tor Bella Monaca e recitato in romanesco da personaggi credibili. E poi, a chiudere il punto, c’è un gran buoncattivo (un bravo Claudio Santamaria), un cattivo pazzo da legare (uno straordinario Luca Marinelli che non sfigurerebbe per niente a Gotham City) e la capacità di non prendersi troppo sul serio.
Insomma, il film di Mainetti non è un sibilo nell’orecchio degli americani, a cui piacerà un sacco. È un sibilo nell’orecchio dei produttori italiani. È un invito a darsi una mossa. Perché se domenica sera, in una sala del cinema centrale di Milano al secondo spettacolo — quello che alla fine non prevede i mezzi pubblici — non c’erano più posti liberi per assistere a una produzione italiana di genere vuol dire che qualcosa sta succedendo in questo paese.
Non sia mai che per salvare il cinema italiano basti fare film vivi, veri, sinceri, potenti piuttosto che buttare nel cesso milioni di euro in produzioni posticce, straviste e stramorte, realizzate pensando di avere davanti un pubblico di professoresse democratiche e per inseguire un interesse che, evidentemente, non è per niente quello degli spettatori.