Il rapporto tra informazione e giustizia finisce spesso sotto i riflettori. Giornali, Talk-show, programmi di approfondimento o presunti tali sono infarciti di cronaca giudiziaria e notizie che escono da procure e tribunali della Repubblica. Comunicare la giustizia è oggi una sfida sia per l’informazione sia per la stessa magistratura.
Il tema nonostante possa sembrare chiuso a classi vecchie e impolverate come magistrati e giornalisti, assume invece rilevanza sia tra gli operatori, magistrati e giornalisti appunto, sia per il ruolo che hanno in questa cornice arrestati, indagati, imputati o semplici citati nelle indagini. Così come centrale è la giusta informazione che deve essere data al lettore.
Per la verità la questione appassiona poco anche coloro che cercano di immaginarsi il futuro del giornalismo, ai quali, non sempre, ma spesse volte, sfugge il fatto che una buona parte di quello che c’è sui giornali e che caratterizza i rapporti tra stampa e potere esce proprio dai tribunali. Allo stesso modo queste notizie risultano anche tra le più lette e ricercate dai lettori.
Comunicare non vuol dire giustificare o convincere, ma solo spiegare in modo trasparente i motivi di una decisione. Motivi su cui è legittimo discutere e anche dissentire; quel che conta è la qualità della discussione e del dissenso. Che è poi qualità della democrazia
Le incomprensioni sono e rimangono molte nel rapporto magistratura-informazione-cittadino, e sono soprattutto questi ultimi a farne le spese. Il tema sarà al centro del Lex Fest, kermesse nazionale dedicata alla giustizia, agli operatori del diritto e al mondo del giornalismo, organizzata da Andrea Camaiora che si terrà dal 4 al 6 marzo a Cividale del Friuli, Udine.
Insomma la giustizia deve essere in grado di parlare al cittadino, ma questo, come scriveva Donatella Stasio sul Sole 24 Ore, “è cosa diversa dal rincorrere il consenso popolare o un’immagine mediatica, magari funzionale alla costruzione di carriere parallele”. Comunicare la giustizia non è dunque solo affare dei media, ma lo sta divenendo sempre di più anche un affare per la magistratura.
Al Lex Fest interverrà Massimo Bordin, storico giornalista di Radio Radicale che da decenni mette in luce le storture del sistema giudiziario anche in questo senso. Con lui ci saranno il 5 marzo dalle 18.30 anche Tonia Cartolano di Sky Tg24, Piero Sansonetti direttore de Il Dubbio e Alessandro Da Rold di Lettera43 in passato a Linkiesta oltre al componente del Csm Luca Palamara, il giudice Luisa Napolitano e l’avvocato Elisabetta Busuito. «Una buona parte del problema – spiega Bordin a Linkiesta – , e questo si vede continuamente nel dibattito sulle intercettazioni, è che la giustizia si muove sempre più secondo una logica di emergenza».
Tuttavia, nel comunicarsi, la giustizia tende sempre più a evidenziare il concetto di “prova regina”. «Abbiamo assistito per anni alla santificazione dei pentiti le cui dichiarazioni, proprio in ottica emergenziale negli anni delle guerre di mafia e delle stragi, rappresentavano la “prova regina”. Col passare del tempo non sempre i pentiti si sono dimostrati affidabili. Oggi questo ruolo è affidato a intercettazioni e riscontri sul Dna, e pure questi due si stanno dimostrando fallaci nell’ottica del concetto di “prova regina”».
«Una degenerazione, quella della violazione del segreto istrutorio, iniziata a fin di bene, quando i magistrati impegnati sul fronte antimafia hanno trovato appoggio per proseguire le indagini più nella stampa che non nei colleghi»
Questione che in questo dibattito è tutt’altro che secondaria riguarda la grande attenzione con cui la cronaca segue le fasi delle indagini preliminari e degli arresti rispetto allo svolgimento del processo, luogo dove le prove si formano e in cui arrivano le testimonianze. «Una regola – spiega Bordin – che si è affermata nella seconda metà del ‘900 quando il dominus delle indagini è diventato il magistrato». Fino agli anni ’70 infatti «gran parte della fase istruttoria e di indagini era delegato alla Polizia di Stato. Da quando è invece il magistrato a guidare le indagini la stampa ha grande attenzione per la fase preliminare dell’inchiesta, che porta a una sistematica violazione del segreto istruttorio».
Una «degenerazione tuttavia iniziata a fin di bene, quando i magistrati impegnati sul fronte antimafia hanno trovato appoggio per proseguire le indagini più nella stampa che non in alcuni colleghi». Erano anni in cui una parte della magistratura si mostrava più impegnata ad affermare il suo status rispetto allo svolgere indagini su potentati economici e politica. «Poi – conclude Bordin – sono arrivati coloro che si sono autodefiniti eredi di Giovanni Falcone e c’è stata una degenerazione che ha consegnato al magistrato un ruolo mediatico che non dovrebbe avere».
Così oggi i processi, a parte qualche lodevole eccezione come GiustiziaMi (grazie al contributo volontario di cronisti giudiziari di altre testate), tra tagli al personale e redazioni sempre meno interessate, sono seguiti col contagocce, nonostante siano un calderone di notizie di non poco conto.
Oggi la sfida della comunicazione della giustizia è ancora apertissima. Per citare ancora Donatella Stasio, “comunicare non vuol dire giustificare o convincere, ma solo spiegare in modo trasparente i motivi di una decisione. Motivi su cui è legittimo discutere e anche dissentire; quel che conta è la qualità della discussione e del dissenso. Che è poi qualità della democrazia”.