Dopo Sala, tocca a Roberto Giachetti e Valeria Valente. Renzi completa senza intoppi l’operazione-candidature, piazza i suoi talvolta a con operazioni furbe (Milano), talvolta per mancanza di alternative (Roma), talvolta vincendo di misura la prova di forza (Napoli) con le vecchie filiere del potere locale. E’ uno schema ribaltato rispetto a quello di cinque anni fa, quando l’onda arancione travolse i candidati sostenuti dal Nazareno e impose aspiranti sindaci fuori dai ranghi, la generazione dei Pisapia, dei Marino, degli Zedda, dei Doria. Quella leva di sindaci “civici” squassò gli assetti interni del partito ma gli consegnò la vittoria delle urne: i nuovi candidati “politici”, così in linea con le indicazioni della leadeship Pd, saranno capaci di conquistare oltre alla cerchia stretta della base pd la platea degli elettorati cittadini?
L’interrogativo politico è questo, e questa è la prova con cui dovrà misurarsi Renzi. Oltre alle dichiarazioni di convenienza, che lo hanno portato a sminuire il valore della tornata amministrativa appendendo al referendum costituzionale i suoi destini, è evidente che questi candidati sono “i suoi”. Ed è lui con la sua classe dirigente, a cominciare da Orfini, ad averne promosso l’investitura: sotto questo profilo il voto amministrativo sarà anche un test – il primo – sulle capacità politiche non del Renzi-premier ma del Renzi-segretario: perché le Leopolde sono bellissime, il racconto della rottamazione è stato ammaliante, il consenso mediatico è evidente, ma saranno le urne a giudicare se questo nuovo Pd è più convincente del vecchio e davvero capace – come ha scritto domenica sul “Corriere” Maria Elena Boschi – di «riempire il fossato tra eletti e cittadini».
E’ uno schema ribaltato rispetto a quello di cinque anni fa, quando l’onda arancione travolse i candidati sostenuti dal Nazareno e impose aspiranti sindaci fuori dai ranghi
Sulla carta la sfida è molto facile. L’opposizione di centrodestra è praticamente sbriciolata, salvo Milano (dove però Sala ha il vento in poppa), non ha nomi convincenti e neppure uno schema di alleanze credibile: anzi, sta litigando come non mai. La galassia a sinistra del Pd è nelle medesime, affannate condizioni. Senza nomi, senza schemi.
E il M5S ha preferito conservare il profilo di partito di protesta, rifiutando le candidature “eccellenti” che gli avrebbero garantito una vittoria senza gara almeno a Roma. Inoltre, i personaggi incoronati dalle primarie hanno potenzialità evidenti: Giachetti proviene dall’area radicale, che a Roma città ha un peso superiore all’immaginabile (non si dimentichi che, alle regionali del 2010 la Bonino nei seggi metropolitani superò la Polverini). La Valente è una donna che arriva da un cursus honorum “all’antica” – dirigente giovanile, consigliere comunale, assessore, parlamentare – e dovrebbe possedere la capacità manovriera necessaria a “fare rete” su un territorio dove da soli non si combina niente.E il M5S ha preferito conservare il profilo di partito di protesta, rifiutando le candidature “eccellenti” che gli avrebbero garantito una vittoria senza gara almeno a Roma
E però, le elezioni non si vincono sulla carta. I candidati del “nuovo Pd” saranno i primi a dover affrontare faccia a faccia elementi politicamente inediti di carattere locale e nazionale. Tra i primi c’è la palese disaffezione dell’elettorato, testimoniata dalla scarsa affluenza ai gazebo, e l’onda lunga delle suggestioni di Mafia Capitale che in teoria imporrebbe di far fuori dalle liste metà delle classi dirigenti locali: se ne avrà il coraggio? Tra i secondi c’è la possibilità piuttosto concreta che si vada alle urne con un Paese in guerra sul fronte libico, una guerra magari camuffata da azione internazionale, missione di peace enforcing o chissà che altro, ma comunque guerra: come reagiranno le opinioni pubbliche, massimamente ostili all’idea secondo i sondaggi?
Insomma, al di là degli esorcismi della classe dirigente renziana, queste amministrative, con questi candidati, in questo contesto, hanno tutte le caratteristiche di un test politico di prima grandezza, sul quale si misureranno “il passo” del governo e le sue prospettive anche temporali, oltreché la tenuta della leadership renziana: un carro su cui saltarono tutti dopo il mitico 40 per cento alle europee, ma che potrebbe svuotarsi con altrettanta fretta in caso di risultati meno rotondi.