TaccolaCairo, il Corriere, e l’alternativa che non c’è

I soci storici si alternano a sbattere la porta, ma lasciando spiragli: stanno trattando sul prezzo, ma vere alternative non ce ne sono. A meno di sorprese da Mediobanca. Basta un dettaglio: per rinegoziare il debito, le banche devono essere tutte d’accordo. Ma Intesa è anche advisor di Cairo

«Al di là delle chiacchiere, al momento non c’è alcuna alternativa a Cairo». A parlare è una persona vicina alla scalata che Urbano Cairo sta tentando al Corriere della Sera. Quella che a leggere i giornali sembrerebbe una corsa sulla linea del fronte. Con i cannoneggiamenti dei soci storici. La chiamata alle armi degli alleati francesi di Mediobanca. La trincea della megafusione tra tre gruppi editoriali milanesi. Mancano solo i cavalli di Frisia sull’A7, l’autostrada che collega Alessandria, città natale del fondatore di Cairo Communication, e via Solferino.
In realtà, a guardare le cose con distacco, il percorso di guerra appare più come una passeggiata, magari in salita. La fatica vera sarà dopo, quando si tratterà di risanare un gruppo editoriale che, per la prima volta da tempo immemore, avrà come primo e unico obiettivo quello di guadagnare soldi.

Cominciamo dalla fusione tra Rcs Mediagroup, Gruppo Sole 24 Ore e Class Editori, evocata nei giorni scorsi Paolo Madron in un articolo di Lettera43. Un’ipotesi affascinante ma che non convince. A remare contro ci sono anzitutto le condizioni economiche dei tre gruppi: tutti e tre zoppi, hanno perso in borsa dal 36% al 62% in un anno e hanno capitalizzazioni decisamente sballate (Rcs 303 milioni, Sole 24 Ore 23 milioni, Class poco meno di 40 milioni). Poi ci sono le considerazioni dei proprietari di Confindustria: una fusione tra Sole e Corriere era stata attribuita al candidato Alberto Vacchi e al suo sponsor Assolombarda (c’è chi dice attribuita malignamente per indebolirlo), mentre era avversata da Vincenzo Boccia, che dell’associazione degli industriali ora è alla guida. In terzo luogo c’è la storia di due gruppi il cui risanamento è stato storicamente molto difficile: se sinergie si vedono all’orizzonte per contenuti e ricavi pubblicitari, il lato dei costi è un grande punto di domanda. Sarà la cronaca a dire, comunque, quanto la strada è realistica.

La seconda alternativa si chiama Mediobanca, che starebbe cercando un cavaliere bianco all’estero. È mistero fitto sull’esito della missione di Alberto Nagel, numero uno di Mediobanca, a Parigi, raccontata da Giovanni Pons sulla Repubblica. Su consiglio di Vincent Bolloré (azionista di peso di Mediobanca tramite Generali), Nagel è andato a incontrare sia Matthieu Pigasse, editore di Le Monde insieme a Xavier Niel (Orange e socio non sempre amico di Bolloré in Tim) sia l’industriale Serge Dassault. Da Mediobanca non commentano ma non smentiscono nemmeno l’incontro. Che ha tutta l’aria di un diversivo, degno di Mino Raiola. Anche l’ipotesi di un Bolloré impegnato direttamente con la sua Vivendi appare difficile da accreditare, vista l’esposizione notevole appena decisa in Mediaset Premium e l’investimento da oltre 3 miliardi stanziati dal finanziere bretone per la scalata in Telecom Italia.

Gli ostacoli messi di fronte a Urbano Cairo nella sua scalata al Corriere della Sera sembrano tanti e invalicabili. Ma in realtà è uno solo: il prezzo dell’offerta

Contromosse spuntate

Esiste l’opportunità che i soci storici rifiutino un intervento esterno e continuino a gestirsi da soli il pachiderma di via Solferino? Le dichiarazioni cannoneggianti dei soci sono arrivate una dopo l’altra, a giorni alternati. Carlo Cimbri (UnipolSai), Marco Tronchetti Provera (Pirelli), Della Valle (Tod’s) con sfumature diverse hanno tutti detto una cosa: il prezzo è basso, l’offerta pubblica di scambio può fallire.
Quali sono, in ogni caso, le mosse che i soci potrebbero mettere in campo dall’interno? La prima è che si vada avanti con lo status quo. Significherebbe trovare un accordo con le banche per la rinegoziazione del debito, pari a 423 milioni di euro (dai 600 concessi nel 2012). C’è però un problema: si tratterebbe di una seconda rinegoziazione, dopo una prima effettuata sotto la gestione di Scott Jovane, ex amministratore delegato di Rcs. E le banche difficilmente accetteranno di rimetterci altri soldi o di allungare i tempi di rientro per fare un favore agli azionisti. Il salotto buono, d’altra parte, è finito. Una banca, Intesa Sanpaolo, come noto sarà contraria: oltre a essere creditrice, è azionista con poco più del 4 per cento ed è anche, tramite la controllata Imi, advisor dell’operazione di Cairo. Il suo amministratore delegato, Carlo Messina, è il principale sponsor dell’editore alessandrino e ha portato dalla sua anche il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa e storico “tutore” del Corriere Giovanni Bazoli. Con lui anche la banca “bazoliana” Ubi, che di certo non è contraria all’ops di Cairo. Rimane il dubbio sulla posizione di Unicredit, tra i primi soggetti a prendere le distanze dall’annuncio. Ma un dettaglio è determinante per capire l’orientamento delle banche: per accettare una rinegoziazione del debito serve l’unanimità dei voti degli istituti di credito. Ergo, non si farà, anche perché Intesa e Ubi hanno all’incirca 300 dei 423 milioni di debito.

Se la ristrutturazione del debito non andrà in porto, l’altra strada è quella dell’aumento di capitale, di circa 100 milioni di euro. Nel dicembre 2015 l’assemblea votò con il 99,7% del capitale una delega al consiglio di amministrazione per un aumento di capitale fino a 200 milioni di euro. Ora però c’è un problema: l’ops di Cairo Communication ha fatto scattare la “passivity rule”: la regola secondo la quale chi è in perdita e riceve un’offerta non può far decidere l’aumento di capitale dal cda ma deve passare dall’assemblea. Riuscirebbe l’operazione, in un momento in cui c’è un’offerta alternativa sul piatto? «La verità è che nessuno vuole fare l’aumento di capitale», commenta una fonte vicina all’operazione.

Le contromosse dei soci storici di Rcs sono spuntate: per la rinegoziazione del debito serve il voto all‘unanimità delle banche, e Intesa, sponsor di Cairo, metterà il veto. E anche per l’aumento di capitale il percorso è reso difficile dalla “passivity rule” fatta scattare dall’offerta di Cairo

L’unico vero ostacolo che separa Cairo da via Solferino appare quindi il prezzo, e qui le scommesse sono aperte. Tra una settimana, alla fine di aprile, l’offerta pubblica di scambio (tra azioni Rcs Mediagroup e Cairo Communication) sarà comunicata alla Consob, che avrà 30 giorni per dare il suo parere. Si vedrà se l’attuale prezzo (offre 0,12 azioni per ciascuna azione Rizzoli), pari a circa 55 centesimi per azione Rcs ai prezzi attuali, sarà ritoccato al rialzo.

È, alla fine, lo scopo di tutte le dichiarazioni accese dei soci, che sperano di spingere l’offerta verso gli 81 centesimi che è stato indicato come “target price” da alcuni analisti. Chi però è vicino all’operazione è sicuro che il prezzo sia giusto, anzi che sia solo una questione di lana caprina: se anche comprasse a un valore non ideale (ma neanche troppo basso, tenuto conto che appena prima dell’offerta le azioni Rcs valevano 41 centesimi – giovedì 21 aprile era salito a 60 centesimi), è il ragionamento, Cairo finirebbe per fare guadagnare tutti. Il suo obiettivo è fare soldi da Rcs, magari non con i tempi record che ci mise a raddrizzare i conti de La7 (sei mesi), ma in tempi ragionevoli. Ma da subito, con lo scambio di azioni tra i due gruppi, gli azionisti storici di Rcs avrebbero accesso a parte del dividendo, che Cairo Communications paga, a differenza di Rizzoli. Nel 2015 è stato pari a 16 milioni di euro.

Il nuovo Corriere

Inoltre, fanno notare i tanti sponsor dell’operazione Cairo, si guadagnerebbe da subito un amministratore delegato. Questo sarebbe il ruolo che assumerebbe, senza dubbio. Come nessuno mette in dubbio le capacità imprenditoriali di Cairo, editore puro che partendo come pubblicitario, prima nella Publitalia di Berlusconi e Dell’Utri, poi in proprio, ha costruito con le sue mani un piccolo impero, coronato anche dal Torino Calcio. Una storia, come ha scritto sul Fatto Quotidiano Giorgio Meletti, non immacolata (nella fedina penale c’è un patteggiamento per false fatturazioni) ma da editore puro, capace di vendere milioni di copie in tempi di crisi dell’editoria. E da pubblicitario, capace di far decollare i progetti più vari, compresi Io Donna, Oggi e Tv Sette, proprio di Rcs. Lo stesso Tronchetti Provera, si dice, in tempi non sospetti lo aveva proposto come gerente di Rcs, una formula che rimase vaga perché non se ne fece nulla. «Vale come Marchionne ma i soci non dovrebbero pagare tutti quei milioni che sborsa la Fca. La vera differenza tra lui e gli attuali vertici è che lui si inventa da zero giornali come Giallo che vendono tantissimo, gli altri non hanno mai inventato niente – dice a Linkiesta una persona vicina al dossier -. E porterebbe in dote una tv come La7 che potrebbe avere grandi sinergie con il Corriere. Ve li immaginate Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo su La7? E un editoriale di Enrico Mentana sul Corriere?».

Ipotesi Mentana direttore del Corriere? Intanto Luciano Fontana, l’attuale direttore sta mettendo a segno un incremento del 3,9% delle copie vendute rispetto all’inizio del 2015. Che succederà al Corriere con l’arrivo di Cairo è la domanda che oggi tutti si stanno ponendo. Il panico, tuttavia, non sembra regnare in via Solferino. Voci dall’interno parlano piuttosto di un clima di speranza

Il nome di Chicco Mentana è stato anche in passato associato alla direzione del Corriere. Andrà a lui al timone del giornale della borghesia milanese? Chi segue la vicenda assicura che per Urbano Cairo oggi cambiare direttore è l’ultimo dei pensieri. Luciano Fontana, per quanto poco appariscente e poco presente in tv – ancora meno dello stesso Cairo – ha dalla sua parte la redazione e, nonostante tutte le difficoltà, sta mettendo a segno un incremento del 3,9% delle copie vendute rispetto all’inizio del 2015. Se un cambio ci sarà, sarà funzionale a un giornale che dovrà fare soldi.

Che succederà al Corriere con l’arrivo di Cairo è la domanda che oggi tutti si stanno ponendo. Il panico, tuttavia, non sembra regnare in via Solferino. Voci dall’interno parlano piuttosto di un clima di speranza verso un terremoto non certo indolore ma salutare.
Il precedente di La7 indica che i tagli ci saranno ma non significheranno necessariamente licenziamenti. Nella televisione rilevata da Tronchetti Provera (di cui per anni è stato pubblicitario) non solo non sono stati fatti tagli di personale (a parte nomi di punta come Benedetta Parodi) ma sono state assunte persone da Telecom Italia. Di sicuro si taglierà tutto quello che non è indispensabile, dagli eventi alle spese di rappresentanza. Ma non si escludono anche sorprese di segno opposto, come più investimenti nel digitale. Anche su questo, in fondo, non ci sono alternative.

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