Non è il maggio ’68 né lo diventerà, e però le classi dirigenti europee dovrebbero fare una riflessione aggiuntiva su ciò che sta succedendo in Francia, in Inghilterra o sul disastrato confine greco di Idomeni, dove all’improvviso sembra che l’unico modo di difendere le scelte degli establishment sia chiamare in campo la polizia coi lacrimogeni, e alzare i manganelli, e insomma imporre l’ordine prestabilito con la forza delle botte e degli sgomberi perché altro strada non c’è.
Solo dieci giorni fa popoli e governi sembravano uniti da nuovi vincoli, anche emotivi, dalle stragi dell’Isis e dall’orrore per la prospettiva che l’Europa fosse trascinata nelle guerre degli altri. Le mille candele, i gessetti di Bruxelles, le marce, le lacrime che univano comuni cittadini e potenti, raccontavano almeno in apparenza la storia di solidarietà nazionali improvvisamente più forti e soprattutto unite davanti al comune nemico. Una grande illusione, sostituita negli ultimi giorni da immagini di segno diametralmente opposto: quelle di governi e leader isolati dalle rispettive opinioni pubbliche, talvolta assediati, spesso costretti a usare la forza per difendere se stessi e le loro decisioni, lungo i confini come in patria.
C’è un nuovo vento di ribellione che si alza in Europa, con un segno diverso da quello marcato dai cosiddetti “movimenti populisti”. Definirlo non è facile, né è possibile capire se diventerà qualcosa di politicamente incisivo, perché si muove sottoterra e non ha al momento “volti” che lo incarnino
La fotogallery della settimana propone cariche di polizia al centro di Parigi sui i manifestanti che protestano contro la versione francese del Jobs Act, e nuvole di lacrimogeni sul confine austriaco, e lungo la rete che divide Grecia e Macedonia, e cortei inaspettatamente affollati persino al centro di Londra, dove la folla chiede le dimissioni di Cameron con un’aggressività del tutto nuova per la società britannica. Non c’è un minimo comune denominatore nelle ragioni della protesta, ma sicuramente un idem sentire emotivo, uno stato d’animo, l’idea che la misura è colma, e se la disperazione dei profughi siriani che forzano i blocchi di confine non è paragonabile alla rabbia dei disoccupati francesi contro Hollande, uguale sembra essere l’approdo: una sfida al potere costituito e alle sue decisioni.
C’è un nuovo vento di ribellione che si alza in Europa, con un segno diverso da quello marcato dai cosiddetti “movimenti populisti”, nato da un generico nuovismo e su un ribellismo spesso senza contenuti. Definirlo non è facile, né è possibile capire se diventerà qualcosa di politicamente incisivo, perché si muove sottoterra e non ha al momento “volti” che lo incarnino. Gli analisti citano l’esempio del vecchio movimento Occupy Wall Street, che fece discutere l’America nel 2011: sembrava sparito, una bolla mediatica o poco più, ma cinque anni dopo i suoi temi, i suoi slogan, la sua innegabile energia riemergono come un fiume carsico nell’imprevisto successo di Bernie Sanders, il vecchio socialista su cui nessuno avrebbe scommesso un dollaro e che invece insidia la corazzata di Hillary Clinton.
Difendere le piazze con la polizia e i confini con l’esercito è una cosa che si è sempre fatta. E abbiamo visto di peggio delle bastonate di Place de la Nation o delle cariche a Idomeni. Così come ci sono stati tanti scandali di matrice analoga ai Panama Papers o all’inchiesta che ha portato alle dimissioni della Guidi. Ma stavolta è diverso.
Questa volta le leadership europee, quasi tutte, sono attaccate al capello di maggioranze elettorali fragilissime. La somma tra il dissenso extra-sistema dei “nuovi partiti” e le contestazioni interne al sistema di frange improvvisamente attive, può produrre risultati caotici. Minimizzare le cose, dirsi “la solita storia”, rifugiarsi nel “passerà anche questa”, sarebbe un grande errore.