C’è stata molta maretta sul web negli ultimi giorni in merito al ruolo degli influencer e dei loro compensi. Proviamo a fare un ragionamento.
È vero, il web ha dato voce a tanti inetti e non ci riferiamo solo agli influencer, ma a quel dannoso effetto collaterale della democrazia digitale per cui anche gli imbecilli vivono i loro due minuti di gloria; è vero, il web è diventato una riserva ambientale per i leoni da tastiera, una palestra per i troll, l’habitat ideale per gli hater che possono finalmente rompere il cazzo su qualunque cosa, anche se poi nella vita sono più docili di un pecorella di pasta reale di mandorle mangiata a Pasqua. È vero, alcuni influencer credono di essere Beyoncé perché hanno qualche migliaio di follower e in alcuni di essi non si ravvisa alcun particolare merito.
Tuttavia è vero anche che il web ha rivoluzionato il mondo della comunicazione dal suo interno e ha rivoluzionato le nostre vite, come e molto più di tutte le precedenti “rivoluzioni mediatiche” che abbiamo vissuto. E in questo radicale cambiamento delle abitudini collettive e personali, intime persino, ha dato vita anche a qualcosa di molto positivo. Persino a degli “influencer” bravi. Perché, sia chiaro, si fa presto a dire “influencer”, a parlare un tanto al kg, a livellare come se non ne esistessero tanti diversi tipi, sui diversi canali, con diversi placement e diversi tagli. È quindi possibile che quando diciamo “influencer” parliamo anche di persone che hanno qualche genere di talento (autoriale, interpretativo, musicale) e che hanno potuto raggiungere un pubblico organico, creare la propria micro-audience, bypassando le gerarchie e le intermediazioni istituzionali, e tutti i loro limiti. A ben vedere, il web e i social hanno dato vita a una nuova forma di creatività, hanno riportato in auge la satira e l’hanno resa partecipata (Spinoza ha fatto la storia in questo senso) e allargata (Twitter ha fatto il resto). Hanno offerto spazio a idee brillanti, geniali talvolta [e a volte misere, ma questo è il normale gioco delle parti. Al cinema escono film di merda (tanti) e capolavori (pochi). Ed esistono attori di infimo ordine che se la tirano manco fossero Marlon Brando. E allora?]
Dunque mi chiedo, se in tutto questo, alcuni influencer ci guadagnano qualche (decina di) milione all’anno come la Ferragni o qualche centinaio di euro al mese per guardare programmi immondi (che non è come andare in miniera per carità ma, raga, passare 3 ore davanti all’Isola dei Famosi merita eccome un indennizzo), cos’è che ci scandalizza? Se i The Jackal fanno la parodia di Gomorra ed essa è talmente brillante e divertente che non mi interessa sapere se sia commissionata da Sky, dov’è il problema? Se qualcuno fa un regalo a Stefano Guerrera che s’è inventato “Se i Quadri Potessero Parlare”, che è una figata, che mi diverte, che mi intrattiene gratuitamente, dov’è che mi danneggia? Se mandano le borse a qualche fesción blogger che sponsorizza la qualunque, dalla sagra della porchetta alla sfilata di alta moda, pace all’anima, la pletora di ragazzine che la segue la emulerà e io penserò che un brand che si posiziona così non è un brand in linea con me (o anche, che io non sono in target). O anche che il direttore marketing non capisce un cazzo. E dunque?
Esistono molte ragioni per cui si diventa influencer, ed esserlo può diventare un mestiere, non c’è nulla da stigmatizzare in ciò. Può essere difficile da comprendere o da spiegare, ma talvolta è un’opzione possibile e non necessariamente indegna. E se vogliamo proprio fare una riflessione, facciamola su come il rapporto tra brand e advertising stia cambiando, riflettiamo sul fatto che l’esistenza degli “influencer” è perfettamente coerente nell’era dei “prosumer”. Ma soprattutto, proviamo a capire che la relazione tra contenuti, mezzi e device è triangolare, mutevole e assai interdipendente, e la quintessenza di questa interdipendenza è Snapchat, che è divertente, frivolo e assolutamente privo di contenuto di rilievo (non ho ancora trovato qualcuno che ne faccia un uso effettivamente interessante). Eppure Snapchat è il futuro, è la direzione verso la quale la comunicazione dei giovani – che sono gli adulti di domani – sta andando: molto più sintetica di un video su youtube, molto più impalpabile di un tweet, estremamente più immediata di una foto-fotoscioppata su Instagram. Snapchat rende la televisione preistoria e la parola scritta diventa puro corredo dell’immagine. E soprattutto non c’è nulla di permanente. Snapchat apparentemente dimentica, sbrandella uno dei capisaldi del web e non ci inchioda alla memoria delle minchiate che pubblichiamo. Snapchat ci da la misura di quanto in fretta le cose stiano cambiando, e stare qui a parlare degli “influencer” e dei loro live-twitting sponsorizzati, ci rende inesorabilmente vetusti. Mentre le aziende sbavano per capire come entrare lì, nel regno dello Snapchat.
Il web ha cambiato tutto e continuerà a farlo (piuttosto in fretta). Se questo sia un bene o un male è indifferente, la nostra percezione personale non arresterà il processo, anche qualora lo trovassimo deteriore. Ciò che possiamo fare è intuire quale sia la direzione che il mondo della comunicazione (di cui gli influencer sono solo uno dei risvolti) sta prendendo, con una certa dose di umiltà e stemperando il coefficiente di #rodimentodeculo e, possibilmente, riconoscendo anche il fatto che alcuni cambiamenti vanno analizzati, compresi (finché il limite anagrafico ce lo consentirà), interpretati e non condannati, anche se non ci piacciono, anche se abbiamo la sensazione (talvolta fondata) che stiano livellando il nostro senso critico o ci stiano disabituando allo spessore (un po’ come ha fatto la tv commerciale con cui siamo cresciuti eppure qualcuno intelligente è venuto fuori dagli ottanta, a ben vedere). Provare a non gridare allo scandalo dove scandalo non c’è (come in un autentico pezzo di giornalismo d’inchiesta che svelava i TARIFFARI degli influencer…). L’unico approccio che trovo sensato è sforzarsi di comprendere e migliorare ciò che è, anticipando ciò che sarà. Così come si richiede di fare a degli utenti evoluti e consapevoli, quali tutti noi presumiamo d’essere.
Tuttavia, per entrare meglio nel merito ho deciso di parlarne con lui, la prima twittstar italiana, 400mila e passa follower su Twitter, una profile pic che dice tutto, non un vip della tv, non un giornalista prestato al social, non un calciatore. Uno normale, uno de noi, la cui popolarità è nata dal web e non è l’effetto collaterale di una visibilità altra. Una chiacchiera in 10 domande facili facili, per capire un po’ meglio cosa sia un “influencer”, se esserlo sia una professione e come succede di diventare influencer.
Signore e signori, DIO (@Iddio)
Partirei con le generalità
Alessandro Paolucci, 34 anni, celibe, laureato in filosofia. Di lavoro faccio il CEO dell’Universo. Quello che di solito chiamano Dio.
Come ti è venuta l’idea di essere Dio?
È l’unico lavoro che ho trovato in Italia. Mi è venuto in mente perché un giorno su Twitter ho visto uno che faceva il Papa, e poi un altro che faceva Gesù, così mi sono fatto un esame di coscienza e mi sono ritenuto abbastanza qualificato da poter fare Dio. Mi sono fatto un colloquio e mi sono detto “il posto è suo”. Potevo anche dirmi “le faremo sapere”, ma poi mi sarei incazzato.
È divertente essere Dio?
La parte del proselitismo e della ricerca di nuovi fedeli è uno spasso, con i social è tutto più facile, specialmente Twitter, ma poi il customer care e l’assistenza sono complicati. La gente pensa sempre di non aver bisogno di Dio, quindi è difficile vendere i miei servizi, poi all’improvviso si accorgono che la loro vita è un disastro e allora si lamentano. Ma la mia è un’azienda seria, rispondo sempre con cortesia e professionalità.
Ma seriamente: è diventato un lavoro?
Diciamo che offro consulenze e collaborazioni in ambito social, gestisco profili altrui, li faccio crescere, insegno i comandamenti per essere Dio, per comunicare e sedurre i fedeli, per fare miracoli con poco. Al momento ci mando avanti una media agency, sta crescendo bene. Sì, lo so che sembra impossibile, ma è come ti dicevo prima: la gente pensa sempre di non avere bisogno di Dio, poi a un certo punto lo cercano disperatamente.
È possibile lavorare divertendosi?
Ma certo. Sono il CEO dell’universo: creo mondi a piacimento e concilio l’inconciliabile. E poi come faccio a non divertirmi quando le aziende mi scrivono “ciao Dio, avremmo bisogno di te per un progetto. Possiamo parlarne senza salire da te? Magari vieni tu da noi”.
Dicci come spieghi a tua madre il tuo mestiere.
Ecco, a questo sto ancora lavorando. Per ora mamma è consapevole del fatto che lavoro su internet scrivendo su cose che si chiamano social, ma non ha capito del tutto cosa sono. Quando poi vuole tagliare corto, dice alla gente che faccio il giornalista, e qui si rischia di cadere in contraddizione. I giornalisti dovrebbero fare le pulci al potere, quindi Dio, che è l’onnipotenza, non può fare le pulci a se stesso, o forse è l’unico che può. Insomma, può una forza inarrestabile spostare un oggetto inamovibile? Può un giornalista onnipotente fare un’inchiesta su un potere incontrastabile? Capisci che la questione è molto complessa, e se mia madre ci sta leggendo probabilmente si è già persa alla seconda riga, quindi fammi un’altra domanda.
Uno degli appunti che gli influencer/web-celeb/twittstar si sentono fare più spesso è che sono dei “fancazzisti che dovrebbero zappare la terra”. A te l’hanno mai detto? Ti sei mai trovato coinvolto in una dissertazione sul tema? O, in ogni caso, cosa ne pensi?
Ah, me lo dicono tutti i giorni. Del resto Dio è quello che ha lavorato sei giorni e poi si è riposato per millenni: faticare poco è essenziale, se lavorassi troppo non sarei un Dio credibile. Comunque sì, ho partecipato alle discussioni sul tema, che non mancano mai e spesso deludono: più che altro si tratta di articoli scritti per far incazzare le webstar, così ricondividono per rispondere, e il blogger si becca un mucchio di visite. Ho visto pochi articoli interessanti sull’argomento, al momento c’è solo un fastidio diffuso per quella sindrome che Michele Serra ha sintetizzato bene dicendo che “in Italia il successo è visto come un furto ai danni della mediocrità”. Quanto al fancazzismo, mi faccio un mazzo così per tramutare quello che ho imparato facendo Dio in un lavoro. E se non rispondo a certi click-baiting travestiti da critiche, è perché sono un Signore.
Qual è la cosa che ti ha gratificato di più, in questa avventura divina?
Un retweet del senatore Gasparri, di un paio di anni fa. Di solito ci si vanta di essere stati bloccati da lui, ma lo fa con tutti. Il suo retweet invece è una specie di grazia dal cielo.
Hai progetti per il futuro dei quali vuoi anticiparci qualcosa?
Libri. Tante idee malsane per tanti libri, che devo assolutamente trovare il tempo di scrivere. Uno sarà un’autobiografia o qualcosa del genere, una sorta di monumento all’autoreferenzialità, dove spiegherò alla gente che è possibile diventare Dio e che giova tantissimo all’autostima. Poi ovviamente dei vangeli, sono già in preparazione. Sì, credo che presto venderò l’universo ai cinesi e mi ritirerò in un casolare a creare baggianate. Perché scrivere cazzate è il modo migliore per non farne.
Col senno di poi, sei contento di come è andata la tua storia professionale? Nel senso: sei contento di non aver vinto nessun concorso pubblico e di esserti inventato una professione che ti consente di mettere a frutto la tua creatività?
Guarda, mentirei se dicessi che non ho provato a cercare il famigerato posto fisso. Una volta mi è stato offerto, ma sono riuscito a rifiutarlo per continuare a fare cose diciamo… poco ragionevoli dal punto di vista della stabilità. Che poi stabilità è una parola grossa. Noi siamo quelli che non andranno in pensione, no? Se devo farmi sfruttare da qualcuno per 40 anni, per avere poco o niente, allora è meglio provare ad essere Dio.