Prima di dire qualsiasi cosa su William Shakespeare, un punto va chiarito: è esistito. E soprattutto, è l’autore delle opere che gli vengono attribuite. Da tempo circolano ipotesi diverse, suggestive ma, come fa notare Sonia Massai, professore ordinario di Studi Shakespeariani al King’s College di Londra, «del tutto infondate». Le più diffuse tendono a individuare, dietro il nome di William Shakespeare, il grammatico e poligrafo di origini italiane John Florio – e il nome inglese sarebbe la cattiva traduzione del nome della madre, “Crollalanza”. È «una teoria più interessante per la storia culturale del nostro paese – scherza Massai – più che per gli studi su Shakespeare. Rivela molto di più sul nostro modo di considerare Shakespeare che su Shakespeare, quello vero».
Una tesi bislacca («Molto») che si regge su alcuni dati veri, come ad esempio «il crescente interesse della corte dell’epoca al mondo e alla cultura italiana» e su altri problemi, invece, assai reali. «La teoria si inserisce nelle intercapedini lasciate aperte dalle infinite difficoltà di attribuzione delle sue opere». Falsi, riscritture, difficoltà di datazione. Un lavoro filologico immenso che ha occupato gli studiosi fin dall’inizio, cioè dalla pubblicazione dell’in-folio del 1623, il First Folio, stampato sette anni dopo la sua morte da due suoi attori e amici, John Heminges e Henry Condell. Lì si trovano 36 opere attribuite a Shakespeare, di cui 18 erano già state pubblicate in-quarto (in formato “tascabile”) in altre occasioni e in ordine sparso, con differenze di testo (battute, personaggi, forma) che hanno suscitato una fitta serie di controversie.
«Il problema è che Shakespeare non ha mai scritto prefazioni indirizzate ai suoi lettori». Anche perché «non aveva ancora la percezione che sarebbe diventato Shakespeare», cioè uno degli autori più importanti della storia della letteratura mondiale, né «di quanto sarebbero state importanti le cose che scriveva. Era un periodo in cui la lingua inglese acquistava sempre più importanza» e la corte della regina Elisabetta diventava il centro di una fioritura artistica e culturale, che andava di pari passo con la sua importanza politica. Come sempre capitava all’epoca, le opere per il teatro non seguivano rigorosi standard né nella loro scrittura (erano soggetti a diverse modifiche, anche occasionali) né nella pubblicazione – anche se, va detto, da tempo era stato istituito un registro per il copyright degli stampatori (quello per gli autori verra introdotto in Inghilterra nel 1709), utile anche per datare le opere dello stesso Shakespeare.
In questo mare magnum, la “inconsapevolezza” di Shakespeare e le difficoltà di reperire dati certi, creano ampi spazi per interpretazioni di ogni genere. Ma non bisogna mai perdere di vista, per amor di tesi, i dati oggettivi. Del resto, come diceva lo stesso Jago concludendo l’Otello, «ciò che si conosce, si conosce».
Intanto, resta un mondo da studiare e, soprattutto, da insegnare. Sonia Massai «con molto lavoro, dedizione, impegno e senza dubbio fortuna» è riuscita a diventare un’italiana in grado di insegnare Shakespeare agli inglesi. «Non incontro resistenze da parte dei colleghi, forse ogni tanto qualche sguardo stupito degli studenti, non abituati al mio accento» che, tiene a precisare, «non è proprio italiano. È piuttosto “non inglese”». Del resto vive a Londra da più di vent’anni, dove, dopo il dottorato, ha continuato lavorando nell’università. «Non è stato facile ma qui sono riuscita a trovare subito lavoro, anche grazie al vivace ambiente culturale, in cui senza dubbio si investe più che in Italia». E infine viene l’insegnamento universitario, tra lezioni frontali e seminari.
«Funziona in modo diverso rispetto all’Italia». Alle lezioni frontali da parte del docente, che espone le tematiche fondamentali del corso (e fornisce anche la bibliografia essenziale per orientarsi), segue un lavoro di interpretazione «compiuto dallo studente. Il suo obiettivo è sviluppare una lettura personale, originale ma fondata sia dal punto di vista storico che filologico dei testi». Un approccio molto diverso rispetto a quello italiano. «Occorre sapere interrogare il testo. Studiarlo, conoscerlo, e saperne trarre nuove domande». Deriva «dalla cultura protestante: lo studio dei testi sacri, come metodo, è passato in via diretta a quello delle opere degli autori profani». In Italia è ancora viva un’impostazione «da Controriforma: l’autorità del testo non viene discussa, ma studiata e assimilata». Due spaccature antiche che manifestano ancora oggi i loro effetti.
Su Shakespeare, del resto, l’azione di rilettura, nel tempo, si è trasformata fin da subito in adattamento, se non proprio alterazione. «È così che è diventato celebre», cioè cambiato e modificato a seconda dello spirito delle epoche. «Alcune opere, pensate per il pubblico popolare del Globe Theatre, dovevano essere ritoccate quando venivano recitate a corte, ad esempio. E questo accade fin da subito». Alcuni finali furono tagliati, o addirittura invertiti, «come quello del Re Lear, una delle opere più belle in assoluto. La fine, cioè l’entrata in scena di Lear con la figlia Cordelia tra le braccia, morta, è uno dei momenti più toccanti e forti della storia del teatro e proprio per la sua intensità, giudicata eccessiva, fu stato cambiato e rappresentato sul palcoscenico inglese per piu’ di 150 anni». Ma non è l’unico cambiamento: sotto alcune spinte femministe, «Re Lear è diventato una donna, accentuando il lato materno della sua figura».
Nell’800 è diventato, con tagli e riscritture, «una lettura per le famiglie». Dalle opere originali di Shakespeare sono state tratte favole per bambini, riduzioni di ogni genere, riletture. «La sua poliedricità è senza dubbio una delle motivazioni che lo hanno resto così grande, famoso e duraturo nella cultura anglosassone». Forse, anche uno dei suoi meriti. E allora, per riprendere da dove si era cominciato, sembra ovvio che, se i testi di Shakespeare non erano più quelli di Shakespeare, allora anche Shakespeare stesso poteva non essere Shakespeare. Ipotesi suggestiva, certo. Ma come molte cose, «senza fondamento».