Altro che Disney: quanto erano belli i cartoni sovietici

Nati per opporsi allo strapotere americano, sviluppano forme narrative visionarie e originali, tanto da trasformarsi in capolavori artistici

Nella storia ci sono grandi battaglie e piccole battaglie. Al confronto che ha dominato metà del ’900 tra capitalismo e comunismo (o, a seconda dei punti di vista, tra libertà e comunismo oppure tra capitalismo e democrazia) si affianca, in via minore, quello tra la Disney e la Soyuzmultfilm, il monopolio sovietico incaricato di rendere grande l’animazione dell’Urss.

All’inizio, lo zio Walt era un modello anche per loro: animali parlanti, storie simili. Poi, è arrivato l’ordine di scuderia: cambiare, e tutto cambiò. Con risultati eccellenti (ma, purtroppo, sconosciuti al di qua della cortina), e con una notevole tendenza verso opere astratte (era necessario per sfuggire agli occhiuti controlli della censura sovietica). Questi sono alcuni esempi:

Il corvo di plastica
All’inizio sembra una riedizione sovietica del “Corvo e la Volpe”, antica favola di Esopo ripresa da Ivan Krylov. Poi, però, qualcosa cambia: la morale della storia originale (“mai fidarsi di chi ti lusinga”) cambia aspetto, riducendosi a generici inviti alla prudenza. E i personaggi cambiano forma a ogni cambio di scena. Come si spiega tutta questa libertà anarchica? Forse con riferimenti a Puskin e al suo poema “In Lucomoria”.

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Il riccio nella nebbia
​Un film culto realizzato da Youri Norstein, all’epoca apprezzatissimo dai vertici sovietici e con critiche internazionali positive. Ebbene: nell’azione non c’è intrigo, non c’è progressione drammatica (lo dice anche l’autore), sembra solo il racconto di un momento di felicità.

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Chi racconta una storia?
La vecchia storia del re (in questo caso uno zar) che si annoia e chiede ai suoi consiglieri lumi su come ammazzare il tempo. Viene bandito un concorso: barzellettieri e cantastorie da tutto il mondo, riunitevi per far divertire lo zar. Il premio? Metà del regno, ma solo se riusciranno a far dire allo zar “Non ci credo, non è possibile” (se fosse stato milanese, “maveramente?”). È un pretesto narrativo semplice per mettere in fila storie fantasiose e piene di immaginazione che affondano le radici nelle tradizioni popolari delle repubbliche allora sovietiche.

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