Benvenuti nell’industria della felicità

Da quando la felicità è diventata uno strumento per la produttività e la pace sociale, cioè un’emozione quantificabile e governabile, è entrata nell’agenda di governi e aziende. Con alcune conseguenze poco felici

La felicità non è lontana. Anzi: appartiene a questo mondo e a questo tempo. È possibile cercarla, è giusto trovarla. Ed è perfino doveroso farlo. Chi non lo fa sbaglia, e chi non ci riesce è un fallito. È questo, in sintesi, il centro de L’industria della felicità, libro di William Davies, economista e sociologo britannico: racconta il cammino intrapreso da un’emozione come la felicità (e dalla retorica che la accompagna) che, da sentimento metafisico di difficile definizione è diventata una realtà concreta, misurabile (e perciò reale) e soprattutto di importanza capitale per le politiche dei governi e delle imprese.

Certo, non è stato semplice. In nome di una maggiore diffusione del benessere, molti paradigmi sono dovuti cambiare. Gli esponenti della “scuola di Chicago” (il più eminente è Milton Friedman) hanno dovuto abbandonare l’idea della supremazia del mercato per abbracciare quella dei monopoli (a beneficio delle grandi aziende americane); gli psichiatri dell’American Psychiatric Association hanno dovuto rinnegare le loro convinzioni e limitare l’individuazione delle patologie sul criterio, nemmeno così ovvio, della presenza del dolore (che è proprio l’opposto della felicità) – supportate dall’allora nascente e oggi fiorente industria degli psicofarmaci. Ora che è possibile essere felici, tutti sono invitati a diventarlo. E questo, forse, è già un problema.

Per essere felici bisogna, prima di tutto, capire di quale felicità si parla.
Nel mio libro io studio la felicità intesa come fenomeno misurabile, calcolabile. Per capirsi: la “felicità”, secondo la psicologia positivista, gli esperti di marketing e gli economisti è qualcosa che avviene nel corpo (in particolare, nel cervello) e può essere indotta o spenta in modo deliberato, per cambiare il modo in cui le persone si comportano. Le origini di questa visione della felicità si trovano nelle opere del filosofo inglese Jeremy Bentham, che sosteneva che le azioni dei governi dei Paesi avrebbero dovuto puntare a massimizzare la felicità in una maniera scientifica e misurabile.

E questo secondo lei è sbagliato?
No. Le politiche e gli aiuti in grado di combattere le condizioni di infelicità e di depressione sono una cosa buona, non lo metto in discussione. Ma ci sono circostanze, soprattutto nei posti di lavoro, nelle scuole e nella pubblicità in cui la promozione dell’essere positivi è, nei fatti, una forma di controllo sociale.

In che senso?
Si tratta di spingere i dipendenti a essere più produttivi, e i bambini a diventare più competitivi – in armonia con una certa forma di capitalismo. Per cui, in ultima analisi, direi che sono le aziende a trare beneficio, soprattutto da una visione del mondo in cui ogni individuo si impegna a essere più ottimista in ogni momento della sua vita, a prescindere dal fatto che la società stia migliorando o no.

Per cui, in generale, la felicità è entrata nel dominio della scienza (e forse, dell’ingegneria) ed è uscita dalla sfera della filosofia.
La filosofia è un tipo di formazione, ed è la chiave per una vita più ricca. Ma una vita più ricca non è, per necessità, una vita felice.

Per cui non era necessario che fossero i filosofi a occuparsi della felicità.
Essere “umano” – in modo pieno – implica essere aperti a tutto lo spettro di esperienze e verità sulla vita. E io sono convinto che la filosofia possa contribuire a una vita felice. Ma non è mai stato questo il suo obiettivo reale. Poi, certo, ci sono sempre più filosofi “new age” in circolazione che si occupano di felicità. E possono avere qualche insegnamento utile per le persone.

Ma pretendere di calcolare la felicità, e di ridurre le esperienze umane a misure e quantità, non è forse una forma, magari mascherata, di filosofia?
È un tipo piuttosto particolare di filosofia. Forse quasi una forma di anti-filosofia. È ciò che viene definito “positivismo”, cioè una filosofia secondo cui le scienze naturali rappresentano il modello migliore per tutti i tipi di ricerca e di sapere umani. Per cui, se dobbiamo occuparci di etica e politica, occorre farlo nello stesso modo in cui ci occupiamo di chimica e fisica.

E funziona?
Credo che si appoggi, nel profondo, su una certa diffidenza nei confronti del linguaggio. E nei confronti dell’ambiguità, della nebulosità delle questioni etiche e politiche. I positivisti vorrebbero avere, davanti a sé, ogni cosa chiara e ordinata. Il problema è che gli esseri umani non sono creature chiare e ordinate. Per cui sì, è una forma di negazione della loro natura.

E magari è anche un’idea di felicità di stampo occidentale. Cosa succede quando si cerca di esportare questa idea di felicità in Paesi distanti dal punto di vista culturale?
Non è proprio una idea “occidentale”. È, piuttosto, l’idea di felicità del capitalismo liberale, cioè diventa qualcosa che può essere ottenuto con una dinamica economico. Può essere esportata sì, ma anche qui: con una modalità colonialista, cioè con tutti i problemi e le resistenze che l’operazione comporta. In ogni caso, non ho dubbi che le filosofie della felicità cambino a seconda delle culture, ma non è un argomento di cui mi sono occupato in profondità.

E il contrario dell’esportazione può succedere? È possibile che questa idea di felicità, sbandierata in questo modo, possa diventare un faro per le migrazioni delle persone?
Prima di tutto, credo che il desiderio di sicurezza dal terrore e dalla violenza siano una questione separata rispetto all’agenda per il “benessere” che si sta diffondendo nell’Occidente. Però sì, esistono senza dubbio alcune forme di migrazione che sono collegate alle ideologie occidentali, come quelle dei migranti che, verso la fine del 19esimo secolo, sono andati negli Stati Uniti. Erano guidati dal “sogno americano”, che di questa ideologia ne è uno dei maggiori portati.

Se la felicità diventa uno strumento di controllo sociale, come si può contrastare questo paradigma senza però trovarsi a combattere la felicità?
È difficile, anche perché all’interno di questo paradigma ci sono senza dubbio cose buone, che devono essere isolate e, anzi, celebrate. Io non sono contro la felicità! La quesione è un’altra, e riguarda un approccio diverso al problema.

Cioè?
Focalizzarsi su riforme delle istituzioni, in generale, e cercare le fonti dello stress non all’interno dell’individuo, ma dell’ambiente che lo circonda. Più che sulla depressione e sullo stress, bisogna concentrarsi su ciò che li provoca, visto che sono connaturate alle istituzioni economiche. La sofferenza ha le sue cause, che sono politiche ed economiche. Sono a favore, come è ovvio, della riduzione della sofferenza. Ma è importante affrancarsi da una ideologia che cura l’infelicità solo e soltato in termini cognitivi e di comportamento.

Cioè con gli psicofarmaci e con altri ritrovati.
Ci siamo preoccupati troppo dei sintomi. Dobbiamo tornare alle cause.

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