Ei fu: il 5 maggio non sarà più ricordato solo per la morte di Napoleone e il suicidio di una squadra di calcio (per chi ha meno di trent’anni: l’Inter). Sarà anche la pietra tombale sul sistema delle banche ex popolari e su quelle venete in particolare. Con l’assemblea dei soci di Veneto Banca si potrà chiudere il cerchio dopo che, la scorsa settimana, la Banca Popolare di Vicenza ha visto i soci storici passare dal 100% allo zero virgola e il fondo Atlante, privato ma con la presenza di peso della Cdp, prendere tutto il resto.
A Marghera, dove si terrà l’assemblea di Veneto Banca, non è ancora in gioco il passaggio di mano della proprietà, perché l’aumento di capitale è previsto a giugno (pare su pressione di Borsa Italiana, perché quotarsi senza bilancio era quantomeno strano). C’è però da approvare il bilancio e da rinnovare il cda e i vertici (amministratore delegato e presidente). Ci sarà, soprattutto, il probabile avvio di un’azione di responsabilità verso chi ha portato la banca sull’orlo del baratro, e pure oltre: a partire da Vincenzo Consoli, per 17 anni padre padrone dell’istituto di credito. I danni sono enormi nell’istituto di Montebelluna (Tv), sede della piccola banca del territorio che negli anni si è espansa nel Nord-Est, al Centro e Sud Italia e nell’Est Europa, tanto da rientrare tra le 14 italiane (poi passate a 15) sottoposte alla vigilanza della Bce. I miliardi bruciati solo per la perdita di valore delle azioni sono stati quattro (dato allo scorso febbraio), solo uno in meno della ben più esaminata Pop Vicenza. Veneto Banca, l’altra grande popolare veneta (c’è poi la veronese Banco Popolare e la Fondazione Cariverona, in Unicredit), se ne discosta per alcuni dettagli che ne giustificano la minore esposizione ai riflettori. Ha tra i clienti imprese leggermente più piccole di Vicenza (si parla di “cassa peota”), spesso artigiani o aziende agricole. Forse il paragone con una Bcc è eccessivo, ma le operazioni sono state sicuramente meno spettacolari. Le grandi fusioni e attività da banca d’affari erano demandate alla partecipata Palladio Finanziaria, mentre l’altro pezzo pregiato è la banca d’affari torinese Bim, Banca Intermobiliare, da tempo in vendita.
Rispetto a Vicenza, la Veneto ha avuto rapporti meno facili con Roma: Banca d’Italia non ha mai ipotizzato di farle comprare una banca come la Popolare dell’Etruria e del Lazio (via Nazionale ha smentito questa visione). Da dentro Veneto Banca si conferma questa visione. Anzi, si aggiunge che la banca ha subito pressioni altissime perché si fondesse con Vicenza. E che i trattamenti sono stati molto diversi tra Vicenza e Veneto Banca quando si trattò di adeguarsi ai parametri per essere sottoposta alla vigilanza Bce.
Ha un management considerato più locale, senza le ambizioni vicentine di strutturarsi come un istituto di primo livello. Non è però un piccolo mondo antico e sano, perché le dinamiche che hanno portato alla distruzione del valore della banca sono le stesse di Vicenza e delle altre quattro popolari “salvate” lo scorso novembre: prestiti dati in base alle relazioni e non alla qualità dei progetti da finanziare, che si sono tramutati in una montagna di sofferenze e incagli (una progressione accompagnata da un accantonamento delle riserve per anni insufficiente, come ha ben spiegato Fabio Bolognini su Linkerblog). Con il contorno altrettanto noto di azioni e obbligazioni fatte sottoscrivere a chi, tra privati e imprese, richiedeva dei prestiti. E molto peggio. Anche a Montebelluna, come a Vicenza, il prezzo delle azioni è stato tenuto artificialmente alto quando i titoli delle banche quotate scendevano, e anche a Montebelluna per gli azionisti diventava difficilissimo disfarsene, perché nelle banche non quotate è l’istituto di credito che deve trovare un compratore. Il titolo vale 7,3 euro contro i 30, 5 del 2015 e i 39,5 del 2014. Ma non è affatto detto che sia finita qui: anche a Vicenza il prezzo era stato fissato a 6,3 euro (contro i 62,5 di due anni fa). Poi, poco prima dell’aumento di capitale, si è scesi fino al prezzo incredibile di 0,10 euro.
Rispetto a Vicenza, Veneto Banca ha tra i clienti imprese leggermente più piccole di Vicenza (si parla di “cassa peota”), spesso artigiani o aziende agricole. Ha avuto rapporti meno facili con Roma. Ha un management considerato più locale, senza le ambizioni vicentine di strutturarsi come un istituto di primo livello. È però tutt’altro che un piccolo mondo antico e sano
A fronte di tutto questo è già arrivata una valanga di cause civili. Contro Veneto Banca il conto è arrivato a 236 milioni. Meno del miliardo e passa di Vicenza, ma non certo briciole, perché di poco inferiore ai milioni chiesti agli ex dirigenti di una banca disastrata e con processi penali in corso come Banca Marche. Consoli è indagato per ostacolo alle funzioni di vigilanza della Banca d’Italia, assieme all’ex presidente Flavio Trinca. E ci potrà essere un’azione di responsabilità votata dall’assemblea dei soci. Il presidente Pierluigi Bolla, in carica dall’ottobre 2015, ha fatto capire che la prospettiva è concreta, avendo detto che ne esistono i presupposti di fatto e di diritto. Potrebbe finire quindi diversamente da Vicenza, quando i soci bocciarono l’azione di responsabilità verso i management della lunga e alla fine disastrosa gestione Zonin (a maggioranza del capitale, perché il voto capitario è finito con il passaggio da cooperativa a spa). Il clima, d’altra parte, è cambiato: la Consob ha appena inviato una lettera di 150 pagine, che ricostruisce la cronologia degli ordini di vendita delle azioni, con i soci scavalcati dalle vendite preferenziali e annuncia maxi-multe. Ma anche a livello politico le pressioni sono forti: gli attacchi dentro e fuori al Parlamento al ministro Maria Elena Boschi dopo il caso Banca Etruria hanno reso politicamente insostenibile girare la testa.
La Consob ha appena inviato una lettera di 150 pagine, che ricostruisce la cronologia degli ordini di vendita delle azioni, con i soci scavalcati dalle vendite preferenziali e annuncia maxi-multe
La politica d’altra parte peserà sul rinnovo di cda, amministratore delegato e presidente. Nella lista guidata da Stefano Ambrosini, che sfida quella espressione del gruppo uscente, non c’è solo Giovanni Schiavon, ex presidente del Tribunale di Treviso e presidente dell’Associazione azionisti di Veneto Banca e al suo presidente. C’è anche Carlotta De Franceschi, già professoressa alla Bocconi e soprattutto consulente del presidente del consiglio e una delle menti del decreto che ha portato alla trasformazione delle banche popolari in spa, nel 2015. In una etichetta giornalistica, è diventata “renzianissima”. La sfida tra le due liste si è fatta infuocata, fatte anche di accuse pesanti, comprese quelle sulle deleghe in bianco per i voti, vecchio vizio delle assemblee delle banche popolari. La vigilia è stata segnata, come ha scritto Giorgio Meletti sul Fatto Quotidiano, da una corsa di entrambe le fazioni a dichiarare la discontinuità con la gestione Consoli e con accusare gli altri di essere invece relitti del passato. Lo ha detto anche il presidente Bolla, che ha accusato i soci della lista avversaria di essere tutti debitori esposti con centinaia di milioni di sofferenze. Una mossa che è praticamente un autogol alla vigilia di un aumento di capitale, perché segnala all’esterno tutto il marcio della banca. Il principale sponsor di presidente e ad oggi sembra la Bce che, con una lettera, ha chiesto sostanzialmente un ricambio di tutto il consiglio tranne i due vertici in carica dal 2015.
Qualunque sia il risultato delle elezioni del cda e vertici, potrebbe essere solo temporaneo. Se Atlante non avrà il 99%, sarà comunque probabilmente in una condizione di forte controllo. A quel punto i due vertici dovrebbero saltare, a favore di una discontinuità fortissima. Sarebbe inevitabile una ristrutturazione altrettanto forte. Veneto Banca sarà rivoltata come un calzino e il piano industriale sarà completamente rifatto
Qualunque sia il risultato delle elezioni del cda e vertici, potrebbe essere solo temporaneo. Ancora non è chiaro come andrà l’aumento di capitale di giugno. I soldi da mettere sono un po‘ meno (1 miliardo invece che 1,5 miliardi) e a garantire non è Unicredit ma la più solida Intesa Sanpaolo, attraverso la controllata Banca Imi, che agisce con un consorzio di altre nove banche, anche internazionali. Potrebbe finire diversamente ma anche allo stesso modo di Vicenza. Se Atlante non avrà il 99%, sarà comunque probabilmente in una condizione di forte controllo. A quel punto i due vertici dovrebbero saltare, a favore di una discontinuità fortissima. Sarebbe inevitabile una ristrutturazione altrettanto forte (e per niente facile). Se Atlante entrerà, Veneto Banca sarà rivoltata come un calzino e il piano industriale sarà completamente rifatto. Atlante avrà le mani libere», ipotizza Fabio Bolognini, blogger e fondatore della piattaforma Workinvoice. Il risultato finale? Difficile prevederlo ma non si può escludere la creazione di una bad bank e newco, come avvenuto con Etruria, Marche, Ferrara e Chieti. «A quel punto sarebbero messe in vendita – continua Bolognini -. Contando le quattro popolari del Centro e le due venete, avremmo sei banche in vendita», ammesso che il conteggio non si estenda a realtà come Carige. Di certo c’è da recuperare qualcosa di delicatissimo: la fiducia dei clienti. Al di là dei dati sull’indice patrimoniale Cet 1, in miglioramento ma al di sotto della soglia del 10% indicata dalla Bce, c’è il problema della fuga dai depositi. Nel primo trimestre, ha fatto notare Carlo Alberto Carnevale Maffè, il margine di interesse è sceso del 13%, le commissioni nette del 23%, il margine di intermediazione del 34 per cento. Ai posteri l’ardua sentenza, ma di gloria non ce ne sarà.