È destinato a chiudersi in poche mosse, lo spazio di una locuzione, il dibattito sulla presunta norma “salva Casta”. Parliamo dell’articolo 3 del disegno di legge a prima firma Doris Lo Moro (PD) sul contrasto alle intimidazioni agli amministratori locali, e licenziata dalla commissione Giustizia del Senato.
L’attuale formulazione, dipinta in queste ore come una norma che «rischia di mandare in carcere fino a nove anni il giornalista che diffama un politico, un amministratore pubblico o un magistrato», sarà rivista.
La pietra dello scandalo è il testo di quell’articolo 3 che recita: «Le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 582, 595, 610, 612 e 635 sono aumentate da un terzo alla metà se il fatto è commesso ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio». Tradotto: un giornalista che diffama un politico o un magistrato rischia di vedere aumentate le pene come già stabilito dal codice penale all’articolo 595 del codice penale. Qui si quantifca l’aumento, da un terzo al doppio. L’inserimento della locuzione «a scopo ritorsivo» cambierà le carte in tavola. Un passaggio che «avverrà a strettissimo giro», rassicurano i ben informati. Quindi i principi di questa nuova legge saranno solo applicati al giornalista che a mezzo stampa diffamerà per ritorsione. Vallo a dimostrare davanti a un giudice. Ma tant’è, complicarsi la vita è sempre bellissimo.
L’inserimento della locuzione «a scopo ritorsivo» cambierà le carte in tavola. Un passaggio che «avverrà a strettissimo giro», rassicurano i ben informati.
Che c’entravano, e che c’entrano però i giornalisti con tutto questo? Perché la diffamazione è accomunata a reati come lesioni personali, violenza privata, minaccia e danneggiamento (582, 610, 612, 635 codice penale)? La categoria giornalistica entra in gioco con la menzione dell’articolo 595 del codice penale, cioè la diffamazione a mezzo stampa, che prevede una pena da sei mesi a tre anni di reclusione o una multa non inferiore a 516 euro. Ma c’è di più: perché al 595 del codice penale l’ultimo comma specifica già che «Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate».
Se ci aggiungiamo che l’oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario prevede la reclusione fino a tre anni e da uno a quattro se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto preciso e mai accaduto, si capiscono i termini del polverone. Raddoppiando la pena di questa fattispecie, scenario che probabilmente mai si è verificato nella storia repubblicano, si otterrebbero otto anni di reclusione per il giornalista.
Certo è che se quella legge ferma in Senato dal giugno 2015, primo firmatario Enrico Costa, sempre del PD, finisse il suo iter iniziato ormai nel lontano 2013 oggi non saremmo nemmeno qui a (ri)scrivere di carcere per i giornalisti.
Il punto è che la disposizione che renderebbe, per citare la FNSI il sindacato dei giornalisti, «una categoria di cittadini più uguali degli altri» cioè i famosi Corpi politici, amministrativi e giudiziari, sono in realtà presenti nel codice penale dal dopoguerra, e non certo da oggi.
Legittimo dunque protestare, posto che la diffamazione va sanzionata e mai col carcere, come accade nei Paesi civili, ma che l’obiettivo sia ben focalizzato su tutti gli aspetti del codice i quali danno per assodata una «categoria di cittadini più uguali degli altri». Fa effetto constatare come a nemmeno un anno dal via libera a Montecitorio alla riforma della diffamazione che ha cancellato il carcere per i giornalisti rientri dalla finestra la pena detentiva, che di solito si trasforma poi in pena pecuniaria. Certo è che se quella legge ferma in Senato dal giugno 2015, primo firmatario Enrico Costa, sempre del PD, finisse il suo iter iniziato ormai nel lontano 2013 oggi non saremmo nemmeno qui a (ri)scrivere di carcere per i giornalisti.