L’incrollabile stupidità del concetto di “canzone d’autore”

Inutile girarci attorno: ogni canzone è d'autore, perché ha un autore. Ma la cosiddetta "musica d'autore", spesso, è una rottura di scatole che si ritrova a essere di nicchia per necessità

Un cubo è un cubo. Come lo giri lo giri, è sempre uguale a se stesso. A meno che non sia il cubo di Rubik, che allora ha colori diversi e quella roba lì, ma per il resto un cubo è un cubo. Ecco, il rapporto tra musica pop e musica d’autore è un cubo. Se ne può discettare quanto vogliamo, ma sempre uguale a se stesso rimane. Da una parte c’è il pop, il basso che piace alla massa, il basso cui guardano gli intellettuali, perché anche gli intellettuali vogliono sentirsi bassi, a volte, vogliono trovare il plauso delle masse e hanno capito, male, che il pop aiuti in questo. Dall’altra la musica d’autore, che si autoproclama tale, che quindi dice di essere alta, e per farlo si contrappone al pop, che invece è bassa, come quando da piccoli si fanno i segni con la matita sul muro, per capire se si è cresciuti, e la musica pop è lì, ferma sotto il metro, mentre la musica d’autore è alta, ma alta davvero, talmente alta che le masse manco sanno che esiste, vedono questo corpo, ma non vedendone la testa pensano sia una statua, un manichino, in tutti i casi qualcosa di inanimato.

Un cubo, insomma.

In genere, dovendo decidere da che parte stare, la critica, gli intellettuali, stanno dalla parte della musica d’autore, quindi. Sono loro, la critica e gli intellettuali a certificare che la musica d’autore è musica d’autore, del resto, confermando quello che gli autori della musica d’autore già si cantano e si suonano da soli. Decidono, la critica e gli intellettuali, che un certo disco, una certa canzone, ma soprattutto un certo artista, rientra nella categoria, e di colpo questo disco, questa canzone, soprattutto questo artista diventano certificati DOC. Quello che fanno, anche i passaggi minori, diventano oggetto di stima, nel caso neanche troppo raro in cui il pubblico, giustamente, se ne fotta di queste indicazioni, e si bulli bellamente dell’opinione di critica e intellettuali, e releghi il disco, la canone e l’artista in una microscopica nicchia scatta addirittura il certificato di culto, un optional destinato solo ai personaggi più misconosciuti, quelli che in un mondo darwiniano sarebbero destinati all’estinzione, spesso all’estinzione violenta.

Spesso critica e intellettuali guardano agli aspetti più infimi del pop con simpatia. Capita che sdoganino, termine orribile ma che ben rende l’idea, dischi, canzoni e artisti assolutamente prescindibili dando vita a endorsement improbabili, incredibili, appunto, finti. ​È bello, ogni tanto, tornare bambini, si dicono critica e intellettuali, quindi perché non canticchiare le canzoni di Nino D’Angelo del periodo ‘Nu Jeans e ‘na maglietta?

Nel mentre, il mondo del pop, sforna prodotti destinati alle masse. Prodotti ignorati dalla critica, dagli intellettuali. Con debite eccezioni, ci mancherebbe. Spesso critica e intellettuali, parliamo di quella porzione di critica libera da stipendi, sia chiaro, perché chi prende la paghetta fa categoria a sé e parla bene solo di chi deve parlare bene per contratto, spesso critica e intellettuali, quindi, guardano agli aspetti più infimi del pop con simpatia. Come un tempo la gente guardava ai freak del circo, con quella forma di empatia destinata a coloro che riconosciamo come particolarmente sfigati, destinati a una brutta fine. Per cui, Marco Giusti può benissimo essere preso a modello, anche se si occupa di televisione e cinema, capita che critici e intellettuali sdoganino, termine orribile ma che ben rende l’idea, dischi, canzoni e artisti, chiamiamoli così, assolutamente prescindibili, dando vita a endorsement improbabili, incredibili, appunto, finti.
È bello, ogni tanto, tornare bambini, si dicono critica e intellettuali, quindi perché non canticchiare le canzoni di Nino D’Angelo del periodo ‘Nu Jeans e ‘na maglietta? Perché non esaltare al trash elevandolo a categoria superiore, tanto poi ci si rifà la verginità indicando quel particolare cantautore di ultranicchia destinato a non superare le duecento copie ma a fare incetta di premi al Tenco, al Bindi, al Ciampi e a uno dei tanti altri premi dedicati a cantautori scomparsi da tempo. Quindi ecco il cubo. La musica d’autore, da una parte, il pop, dall’altra. Punti di congiunzione gli aspetti più aberranti del pop, vezzo di chi può portare luce anche laddove luce non c’è.

Però. Sì, l’avevate capito, a un certo punto sarebbe saltato fuori un però. Non è che un critico musicale, un intellettuale, si perde in considerazioni non esattamente conciliatorie nei confronti dei suoi simili così, gratis. Dietro c’è un tranello, un però, appunto.
E il però è semplice, talmente semplice da sembrare quasi un atto di mimesi col pop di cui, si sarà intuito dai toni scelti, l’autore di questo scritto, che poi sarei io, in qualche modo è grande estimatore. Il però, appunto, apre questo spiraglio: però il pop non sarebbe da prendere così alla leggera. Lo cantava anche Fossati, uno che nei due generi, pop e musica d’autore, ci ha sguazzato magari Iddio, anche se spesso è stato portatore di musica d’autore nel pop.

La questione è semplice. Tutte le canzoni di questo mondo, da Like a Rolling Stone a La Macarena, da La costruzione di un amore a Brutta, da Enter sandman a Chandelier è d’autore

La questione è semplice. Tutte le canzoni di questo mondo, da Like a Rolling Stone a La Macarena, da La costruzione di un amore a Brutta, da Enter sandman a Chandelier è d’autore. Funziona così, senza possibilità di altra via da percorre: ci sono una o più persone che scrivono la canzone, la depositano in Siae o nel suo corrispettivo straniero e poi c’è qualcuno, magari lo stesso autore (o uno degli stessi autori) che l’interpreta. In tutti questi casi la canzone, pop o d’autore, ha un autore. Quello che firma il brano. Solo che ci sono autori e autori, e spesso il valore dell’autore, quindi la possibilità di chiamare la canzone canzone d’autore, è inversamente proporzionale al suo successo, più sei di massa meno vali. Quindi chi scrive una canzone pop è basso, chi scrive una canzone cantautorale, usiamo per una volta questo termine tutto italiano, è alto.

Chiunque provi a dire che dietro al successo ci deve per forza essere qualità viene bollato di miopia, e, anche chi scrive lo ha fatto, perché in molti casi è plausibile, messo in un angolo al grido di “Mc Donald’s ha molti più clienti dei grandi chef stellati”. L’equazione messa in campo, in questo caso, è semplice: successo di massa uguale junk food. Però, e ci siamo già giocati il secondo però, succede che senti una canzone di Luca Carboni, cantautore a tutti gli effetti, scuola bolognese in capo a Lucio Dalla, e ti ritrovi a canticchiare una perfetta canzone pop con tanto di doppi ritornello orecchiabile, Luca lo stesso.
Lo stesso Lucio Dalla, uno che delle regole e dei canoni si faceva con piacere gioco, ha cantato Attenti al lupo, non esattamente una canzone d’autore. Ma vado oltre, uno sente Sei un mito di Max Pezzali, e nonostante tutte le sovrastrutture che ore e ore a ascoltare i Sigur Ros gli hanno procurato, si ritrova a canticchiare parola per parola, con tanto di dito alzato verso il cielo. E non è un caso che proprio Max Pezzali sia stato oggetto di sdoganamento non tanto della critica, a parte chi scrive queste parole, quanto della scena hip-hop e della scena indie, che si sono ritrovate, qualche tempo fa, a celebrarne il talento con due antologie per certi versi leggendarie (e non è un caso che l’ultimo singolo del nostro, Due anime, porti la sua firma a fianco di Niccolò Contessa de I Cani, altro artista indie con una grande allure presso critica e intellettuali).

Il pop è pop, altroché basso. E la musica d’autore, spesso, è una rottura di coglioni che si ritrova a essere di nicchia per necessità, la necessità di chi non sta nella nicchia di sopravvivere.

Stesso discorso si potrebbe fare per gli Zero Assoluto, al secolo Matteo Maffucci e Thomas De Gasperi. Senti le loro canzoni, ti viene quasi da prenderli per il culo per la loro leggerezza, per i turututù, per le voci lievi, ma poi te le canti tutte, fino in fondo, e muovi anche il piedino, perché il pop, santo Iddio, quando è ben fatto è inclusivo, non fa distinzioni come certa musica d’autore. Del resto, diciamolo senza se e senza ma, in barba ai tanti autori di musica d’autore, la autrice più rappresentativa degli ultimi anni è senza ombra di dubbio Sia, cantautrice australiana che ha regalato hit a mezzo mondo del pop internazionale, senza esclusioni

Il pop è pop, altroché basso. E la musica d’autore, spesso, è una rottura di coglioni che si ritrova a essere di nicchia per necessità, la necessità di chi non sta nella nicchia di sopravvivere. Il problema è che critica e intellettuali affrontano troppo spesso il pop in maniera pretestuale, quindi si sporcano le mani, non lo vivono con leggerezza, e tutto questo si vede, si sente, diventa tarocco. E dire che basterebbe così poco, sfilarsi la scopa dal culo e lasciarsi andare, senza paraocchi e senza la volontà di voler a tutti i costi essere altro da sé.
Il giorno in cui Max Manfredi, tanto per fare un nome, tirerà fuori un incipit come “Tappetini nuovi e arbre magique/ deodorante appena preso che fa molto chic” saremo pronti a tornare sui nostri passi, ci passeremo uno strato di polvere sopra i vestiti, infileremo occhialini tondi e guarderemo con disprezzo tutto ciò che venda più di centocinquanta copie (come neanche una recensione di Rockerilla riuscirebbe a fare), per ora ci limitiamo a sentire canzoni pop perché ci piacciono quelle canzoni pop, canzoni di un determinato cantautore perché ci piace quel determinato cantautore, così, senza costruirci sopra grattacieli. Stiamo parlando di musica, vivaddio, siate un po’ meno pesanti.

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