La procura più importante d’Italia, quella di Milano, da sei mesi non ha una guida. Dopo il pensionamento dell’ex procuratore capo Edmondo Bruti Liberati il Consiglio Superiore della Magistratura, a colpi di rinvii e di equilibrismi da “Partito della Nazione”, non è mai arrivato alla quadra sulla nomina. D’altronde con le nuove regole il peso della politica nella partita degli incarichi direttivi nelle procure è sempre maggiore. Una debolezza del potere giudiziario verso la politica stessa? Si vedrà.
Certo è che in questo ventennio al quarto piano del Palazzo di Giustizia dove si lavora sotto l’insegna “iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia iusti atque iniusti scientia”, ovvero “la Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti”, di dei ne sono nati e poi caduti. D’altronde da qui sono passati i più grandi scandali della Repubblica, dagli anni del terrorismo a Mani Pulite, passando per il caso Abu Omar ai processi a carico di Silvio Berlusconi e i casi Telecom e i “furbetti del quartierino”.
Negli anni di tangentopoli la procura meneghina decide i destini della prima Repubblica, inaugurando, «per mano giudiziaria» ama sottolineare qualcuno, la seconda di Repubblica. Anni in cui l’allora procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, si rivolgeva ai candidati alle elezioni politiche così in una intervista rilasciata al Corriere della Sera: «Se hanno scheletri nell’armadio (i candidati, ndr), li tirino fuori prima che li troviamo noi». Correva l’anno 1993, e presenza fissa davanti al palazzo con tanto di tram che sfrecciava alle spalle era Paolo Brosio.
«Se hanno scheletri nell’armadio li tirino fuori prima che li troviamo noi»
Quel clima e una delega in bianco da parte della politica alla magistratura hanno poi fatto il resto, contribuendo a creare una classe dirigente di magistrati, qualche mito e pure qualche meteora. Negli ultimi trent’anni anche la battaglia politica si è decisa nelle stanze di via Freguglia, e la politica in quelle decisioni ha assunto pesi determinanti grazie anche alla presenza delle correnti della magistratura.
Per anni da fuori il palazzo è sembrato un monolite fatto di togati pronti a remare nella stessa direzione, eppure i veleni non sono mai mancati. Alcuni protagonisti sono cambiati, e nemmeno molto, ma le storie si somigliano tutte. L’ultima dirompente diatriba tra i corridoi al quarto piano del Palagiustizia è stata la frattura tra l’allora procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo, nome storico della procura meneghina. Un conflitto partito sotto traccia che poi è deflagrato in coincidenza con le indagini sugli appalti di Expo, e che è costato il trasferimento dello stesso Robledo. Una inchiesta quella su Expo che si è intersecata e si interseca ancora una volta con la politica, in particolare dopo la candidatura di Giuseppe Sala.
Ironia della sorte lo stesso Bruti Liberati aprì il fronte dello scontro con uno dei suoi capi nel 1993. Magistrati che indagano altri magistrati con le correnti che entrano definitivamente a Palazzo di Giustizia. È la storia di Pietro Pajardi, capo della Corte d’Appello di Milano negli anni ’80, cattolico e vicino alla corrente centrista di Unicost. Nonostante la vicinanza correntizia Pajardi sostiene la laicità politica delle toghe, ma si troverà suo malgrado detronizzato da Bruti Liberati e Magistratura Democratica.
Milano non è solo il centro del sisma giudiziario italiano di Mani Pulite, ma lo è anche dell’intero scacchiere del potere. Una indagine su Diego Curtò, all’epoca presidente vicario del tribunale, accertò come lo stesso intascò una mazzetta da 400mila franchi svizzeri per aiutare l’Enimont di Raul Gardini. Bruti Liberati tirò in ballo Pajardi in una intervista su Repubblica, accusandolo di essere lo sponsor di Curtò. «Nel tribunale di Milano – spiegava Bruti al giornale di De Benedetti – s’è costituita una concentrazione di potere assolutamente anomala, che gestiva tutte le vicende economicamente rilevanti. È giusto chiedere al presidente della Corte d’appello cosa ha fatto in questi anni». Curtò fu poi scagionato da tutte le accuse.
Le medesime accuse che venti anni dopo Alfredo Robledo muove al suo capo, reo d’essere «un padrone» nella gestione delle indagini, assegnando i fascicoli a una ristretta cerchia di magistrati a lui graditi. Finì con Robledo che saluta e se ne va a Torino. Anche perché lo stesso a inizio 2012 si era messo di traverso anche nei confronti di uno degli attuali papabili alla guida della procura: il capo del pool che indaga sulla criminalità economica, Francesco Greco. A Greco nel 2013 la procura generale avocò sette fascicoli ritenendo che in questi sette casi le archiviazioni predisposte dal pubblico ministero Francesco Greco siano state troppo precipitose.
Veleni e tiri mancini che colpirono lo stesso Borrelli nel 1995 quando fu messo sotto schiaffo dai colleghi Gustavo Cioppa e Giulio Catelani, allora procuratore generale a Milano. Ben inserito negli ambienti milanesi Borrelli diventò facile bersaglio a causa di una foto a cavallo. Cavallo, sosteneva la coppia Cioppa e Catelani, fosse di Giancarlo Gorrini, ex presidente della Maa assicurazioni, condannato per aver fatto sparire dalle casse dell’ assicurazione 50 miliardi. In quei giorni ci fu anche l’addio alla toga di Antonio di Pietro diretto all’agone politico e di quella foto a cavallo non se ne fece più niente.
Per capire i rapporti tra la procura di Milano e la politica è sufficiente dare uno sguardo ai componenti del pool di mani pulite. In politica andarono in quattro: Antonio di Pietro, Gherardo Colombo, Tiziana “Titti” Parenti e Gherardo d’Ambrosio, che fu capo della procura per tre anni dal 1999 al 2002. Uno, Piercamillo Davigo, oggi è presidente del sindacato delle toghe, l’Associazione Nazionale Magistrati. Insomma, un palazzo che si è fatto classe dirigente e che oggi è in cerca di un capo. Capo che il Consiglio Superiore della Magistratura individuerà il prossimo 30 maggio fra tre papabili usciti dalla lista dei dieci candidati. Francesco Greco, capo del pool che indaga sulla criminalità economica e già consulente del governo, il capo di gabinetto del ministero della Giustizia e già pubblico ministero a Napoli Francesco Melillo e Alberto Nobili, pm storico della procura, personaggio ritenuto saggio ed equilibrato dai colleghi, ma non avvezzo alla sponda politica. Sua la firma sulle indagini che hanno portato ad arresti e condanne la ‘ndrangheta lombarda negli anni ’90.
Escluso Nobili la partita tra Greco e Melillo non dovrebbe preoccupare più di tanto gli assetti di governo. Al Csm ago della bilancia sarà Unicost, il correntone di centro. Un ago che, a proposito di magistratura e politica, per spostarsi da una parte o dall’altra potrebbe anche risentire di promesse di seggi e incarichi alla Camera dei Deputati per uno dei leader del correntone.