Neanche il tempo di cominciare e si è già persa la destra normale di Alfio Marchini, che con un inutile precisazione sulle unioni civili – «Rispetto tutti ma non le celebrerò» – molla i suoi riferimenti civici e fa un passo verso l’anacronismo identitario di altre destre (Salvini, Meloni) e gli ultras del confessionale (Adinolfi). Lo fa per convenienza, lo fa per recuperare voti, lo fa perché ha perso la speranza di competere a sinistra dopo l’alleanza con Berlusconi, lo fa perché così fan tutti: qualunque sia il motivo, lo fa nel ruolo e nel momento sbagliato. Perché un sindaco “civico” è sindaco di tutti, quindi anche dei gay che dopodomani busseranno in Campidoglio per registrare la loro convivenza. E perché oggi c’è l’ultimo “sì” alla legge, e tra gli ululati degli opposti estremismi, quelli che strillano per lo strappo di civiltà e quelli che protestano perchè volevano il matrimonio egalitario, sarebbe stato più saggio tenersi lontano da entrambe le curve.
È un curioso destino delle destre l’impossibilità di trovare elementi di riconoscimento e distinzione fuori dalla sfera della morale. Sulla soglia dei seggi elettorali, per chiamare a raccolta il popolo disperso e marcare le differenze, si finisce sempre lì: al peccato, al privato, alle regole della camera da letto, all’ostilità manifesta per il “personale” che non piace. Alfio Marchini sulla carta aveva la possibilità di sottrarsi. In fondo ha costruito la sua seconda vita in politica proponendosi come elemento di pragmatismo ed equidistanza ideologica. Il suo simbolo è un cuore ritagliato nella mappa di Roma: logo del tutto a-politico e intenzionalmente super partes. Eppure non ce l’ha fatta neanche lui. Oggi, in un tentativo piuttosto goffo di riaggiustare le cose, dice al Corriere che è stato equivocato, che rispetterà la legge, che voleva solo marcare la differenza tra matrimonio e unioni civili. Ma il guaio ormai è fatto. E Marchini è diventato un po’ meno Marchini e un po’ più Salvini, un po’ più Meloni, un po’ più Adinolfi.
Marchini è diventato un po’ meno Marchini e un po’ più Salvini, un po’ più Meloni, un po’ più Adinolfi
Anche il cosiddetto laboratorio romano – il centrodestra “normale” contrapposto al tentativo lepenista di Fratelli d’Italia – perde in qualche modo fascino e motivazione. Chi pensava fosse arrivato un Boris Johnson, il sindaco conservatore di Londra che strappò la città ai laburisti parlando di taxi a idrogeno e latino nelle scuole pubbliche e mai impicciandosi di questioni morali, anzi difendendo il primato dello Stato, ne uscirà un po’ deluso. Da noi il laboratorio non si fa. Da noi siamo sempre lì, dalle parti di Fanfani, e il recinto polveroso che definisce le destre resta sempre lo stesso, così vischioso che pure gli outsider volenti o nolenti ci restano dentro. Da noi serve la battuta contro le unioni gay. Da noi serve lo slogan contro i rom, e se non è «Ruspe» gli deve somigliare. Da noi si mette il neologismo “cUoraggiosi”, ma questo cUoraggio può attendere a dopo le elezioni, perché prima sembra obbligatorio specificare che si è nuovi ma fino a un certo punto. Che si è civici ma anche identitari. Che si rispetta tutti, ma la fascia tricolore si mette solo per qualcuno.