Se non è un all-in poco ci manca. Alessandro Penati, presidente del fondo Atlante, lancia dal Festival dell’Economia di Trento la sua sfida: effettuare entro metà luglio un’operazione di acquisto in grande stile di Npl (non performing loans, ossia i crediti in sofferenza nella pancia delle banche). L’obiettivo: creare un mercato per gli stessi Npl. Oggi questo mercato non esiste, o è opaco. Non c’è chiarezza di che cosa si vende e i prezzi finiscono per essere stracciati. Solo un lavoro certosino di classificazione, seguito da una puntata su una, o al massimo due maxi-operazioni, dice Penati, possono far fruttare i pochi soldi che il fondo ha ancora in dotazione. Dei 4,25 miliardi iniziali raccolti, circa 2,5 andrà negli aumenti di capitali di Popolare di Vicenza (già fatto) e quello di Veneto Banca (da chiudersi entro fine giugno). E solo così il fondo conta di dare una risposta ai tanti scettici circa la sua reale utilità. Finora Atlante è stato usato per evitare il bail-in delle due banche venete e per togliere le castagne dal fuoco a Unicredit, che era garante dell’aumento di capitale di 1,5 miliardi di Popolare di Vicenza.
Se vi siete persi, è meglio fare un passo indietro: Atlante è un fondo d’investimento alternativo. Serve a sostenere le banche italiane nelle proprie operazioni di ricapitalizzazione e a favorire la gestione dei crediti in sofferenza del settore bancario. È gestito da una società privata, la Quaestio Sgr, guidata da Penati. Ed è stato creato in coordinamento con il governo italiano e con i principali gruppi assicurativi e bancari (con Unicredit e Intesa Sanpaolo in testa), assieme a Cassa Depositi e Prestiti.
«C’è un enorme scetticismo. Se uno fai calcoli, dice: con i soldi che hai non puoi risolvere il problema degli Npl. Ma a mio avviso è sbagliato fare questo calcolo. Perché il problema è quello creare un mercato. E lo creemo con una grande operazione a luglio»
In una delle poche uscite pubbliche da quando presiede il fondo, Penati, che è stato per anni editorialista di Corriere della Sera e poi Repubblica, ha provato a rovesciare il disincanto e i dubbi del mercato. «Ho girato in lungo e in largo e ho parlato con gli investitori esteri. È ovvio che c’è un enorme scetticismo – ha detto venerdì 3 a Trento -. Se uno fai calcoli, dice: “con i soldi che hai non puoi risolvere il problema degli Npl”. Ma a mio avviso è sbagliato fare questo calcolo. Perché il problema è quello creare un mercato». Tra le sofferenze nette e la quota degli incagli (crediti recuperabili con difficoltà, ndr) che si stima diventeranno sofferenze, si sta parlando di 120 miliardi di attività rischiose e iliquide. «La cifra di 120 miliardi è una quantità di soldi minima», è stata la rassicurazione di Penati. Se non si riesce a smaltire questi Npl, ha aggiunto, è perché «in Italia non c’è un mercato di asset backed securities», che invece risolsero la crisi bancaria del 1992-1995. «Se tu fai una grossa operazione, che diventa un benchmark, in seguito ne vengono altre. Io non voglio spiazzare i fondi esteri (con una concorrenza sleale perché i rendimenti che il fondo si pone come obiettivo sono inferiori alla media di mercato, ndr), io voglio portarli dentro – ha detto -. Noi faremo un coinvestimento, metteremo all’asta pezzi di queste operazioni. Dal punto di vista finanziario non è una cosa impossibile. Anzi, lo si può fare in mesi, non in anni».
Lo strumento che Penati ha ideato («ci siamo scervellati») è un benchmark, un punto di riferimento. Così lo descrive il presidente di Atlante: «Sarò una grande operazione di Npl. Invece di sparpagliarci su tante cose, vogliamo fare un’operazione che sia un template, anche per i mercati internazionali. Ho parlato con investitori internazionali e questo è quello che mi chiedono».
Fare bene vuol dire innanzitutto fare chiarezza su cosa ci sia nei portafogli di sofferenze (e incagli, che in Italia sono in percentuale superiore rispetto all’estero). Il valore degli Npl deriva dal tempo in cui si recupera il credito e della tipologia del credito stesso. E qui ci sono i problemi, se si parla di mercato italiano. Nei portafogli c’è di tutto, dal credito per una vacanza ai mutui residenziali, dagli aerei privati ai capannoni industriali, sani o scassati. Non si possono fare delle aste perché non si sa che cosa si compra. «In Italia il 50% (dei crediti in sofferenza) a settembre saranno digitalizzati – aggiunge Penati -. Questo vuol dire che l’altro 50% sarà ancora rappresentato da pezzi di carta nelle scrivanie. Inoltre non c’è uno standard sulla classificazione». Per evitare di svendere bisogna invece digitalizzare e classificare, o “clusterizzare”, i crediti. Per compiere quest’operazione in vista dell’acquisto di luglio, spiega Penati, «stiamo valutando una squadra di 80 persone per fare la due diligence per classificare i dati».
L’altro capitolo dell’intervento di Penati ga riguardato il secondo cappello di Atlante, quello di azionista di banche in difficoltà: finora è toccato a Vicenza, presto sarà la volta di Veneto Banca. «Cercheremo di dimostrare che anche in Italia si possono fare delle ristrutturazioni», dice il finanziere-editorialista. Noi, ha aggiunto, «non siamo lì per gestire la banca, ma per nominare un cda e appoggiare dall’esterno, perché faccia le ristrutturazioni il prima possibile e trovi un investitore il prima possibile, entro 18-24 mesi».
L’attacco più duro è verso Unicredit. «È la più grossa banca, è l’unica sistemica italiana. È sotto gli occhi di tutti che siamo intervenuti anche perché 1,5 miliardi metteva in crisi la più grossa banca italiana. Avete mai visto una banca che manda a casa un amministratore delegato e che poi non trova nessun altro? Per me sono da prendere gli azionisti e da licenziare gli azionisti»
La sfida, in ogni caso, non è certo rivolta solo al mercato. Penati si è tolto molti sassolini dalle scarpe anche verso gli azionisti di Atlante. «Noi di Questio non lo facciamo per soldi – ha detto -: ci pagano poco, una commissione pari allo 0,07 per cento. Le nostre care banche investitrici quando si tratta di fare servizi agli altri utilizzano altre metriche. Nonostante questo io ho accettato l’incarico». Non solo, i problemi sollevati riguardano anche la governance: «Il mio auspicio era che il comitato di investitori fosse indipendente. È un fatto pubblico che nel comitato degli investitori su nove membri otto sono funzionari di banca e il presidente indipendente (Carlo Corradini, ndr) ha appena lasciato il cda di Intesa Sanpaolo, era il managing director di Imi e la scorsa settimana è stato nominato presidente del collegio sindacale di Cassa Depositi e Prestiti. Io ho un’altra idea di indipendenza. Non è semplicissimo fare il proprio lavoro, soprattutto quando, come è successo qualche settimana fa, bisogna negoziare fino alle 3 del mattino per farsi almeno ridare, dalle banche che ci hanno richiesto la garanzia di sub-underwriting, le commissioni che loro si sono fatte dare dalle banche e che evidentemente volevano tenersì per sé».
Penati non ha lesinato nell’attribuire responsabilità per l’enorme massa di Npl presente in Italia: il dito è stato puntato contro Confindustria (perché molti azionisti delle banche sono imprese) ma anche media, sindacati dei bancari e Abi. L’attacco più duro è andato però verso Unicredit. «È la più grossa banca ed è l’unica sistemica italiana. È sotto gli occhi di tutti che come Atlante siamo intervenuti nell’aumento di capitale di Popolare di Vicenza perché un’esposizione per 1,5 miliardi avrebbe messo in crisi la più grossa banca italiana». Criticata anche la rimozione di Federico Ghizzoni dalla carica di amministratore delegato di Unicredit. «Avete mai visto una banca che manda a casa un amministratore delegato e che poi non trova nessun altro? – si è chiesto, retoricamente -. Per me sono da licenziare gli azionisti. È mai possibile che la responsabilità sia solo dell’amministratore delegato? Forse ci sarà una prima linea di manager che sono da mandare probabilmente a casa».
Il presidente del fondo ha comunque voluto mettere le mani avanti: «Atlante senz’altro non risolve il problema delle banche italiane – ha messo in chiaro -. Se non si rimettono a fare utili; non c’è non dico inflazione ma una ripresa seria; non c’è la volontà da parte degli azionisti, a parte di quelli in cui entriamo noi, di avere il coraggio di affrontare la situazione, non se ne esce». E ha concluso con una nota malinconica a chi gli chiedeva quale fosse il discrimine tra successo e insuccesso: «Il fatto che io getti la spugna. Forse ho sottovalutato l’impegno a livello personale».