1899-1986Ma quale reazionario? Jorge Luis Borges era un anarchico individualista

Sebbene la vulgata (e due pranzi decisamente sbagliati) lo abbia messo tra gli scrittori di destra, conservatori, nazionalisti e reazionari, il più grande scrittore argentino di tutti i tempi era un libertario individualista, avverso allo Stato e ad ogni forma di nazionalismo

Se un uomo si può giudicare sulla base di due pranzi, allora quello a Buenos Aires con il generale Jorge Rafael Videla del 19 maggio 1976 e quello, a Santiago del Chile, con il suo parigrado cileno Augusto Pinochet del 21 settembre dello stesso anno, bastano per giudicare Jorge Luis Borges un conservatore, un reazionario e un fascista. Ma con Borges — come forse con tutte le persone complesse — due episodi non sono sufficienti, e basta aver frequentato le sue pagine per capire che commetteremmo un errore.

Si sa, Borges è sempre stato considerato uno scrittore algido, gelidamente perfetto, lucidamente vertiginoso, imprigionato, dalla vita prima, dalla cecità poi. La sua prigione non è di pietra, ma di carta. È un mondo fatto di libri. In molti lo accusano di essere troppo lontano dalla vita, di aver abdicato ad essa per vivere in un mondo fantastico, autoesiliatosi in una biblioteca infinita mentre fuori si scatena l’inferno, i generali conquistano il potere e migliaia di persone, semplicemente, spariscono. Questo ritratto non è esente da verità. Ma pecca di completezza, perché Borges è un po’ più complesso di così.

Mario Vargas Llosa racconta che nel 1964 a Parigi, a una domanda su cosa fosse la politica, Borges rispose lentamente: «es una de las formas del tedio», una delle declinazioni della noia. Ma il distacco di Borges, che sembrò al peruviano un distacco estetico, era in realtà essa stessa una dichiarazione politica, quella di un anarchico, di un teorico dell’individualismo che ha disseminato involontariamente nell’intera sua opera i tasselli di una chiara idea politica. Una politica libertaria di origine paterna.

In una delle fantastiche note a margine di cui è ricco il suo ultimo libro, Il Fattore Borges, tradotto in Italia da Sur, lo scrittore argentino Alan Pauls suggerisce un legame potente tra Borges e il padre, Jorge Guillermo, un avvocato anarchico con l’ossessione, costantemente frustrata, della scrittura. È un rapporto che va più in là del legame affettivo. È un rapporto che, scrive Pauls, nasconde un vero e proprio indebitamento: «Fin da molto presto, Borges deve tutto a suo padre: i problemi di vista, il prestigio di un’araldica letteraria, la lingua e la letteratura inglese, la prima biblioteca, i rudimenti del pensiero filosofico e, cosa ancora più importante, la missione, il dovere di scrivere». Ecco, tra i rudimenti del pensiero filosofico che il padre passa al figlio, c’è anche qualcosa che interessa questo discorso.

Il dettaglio è autografo, lo cita lo stesso Borges in Abbozzo di una autobiografia, quando racconta del padre come di un uomo «molto intelligente, come tutti gli uomini intelligenti, molto buono». Scrive Borges: «Una volta mi disse che avrei dovuto guardare molto bene i soldati, le uniformi, le caserme, le bandiere, le chiese, i preti e le botteghe dei macellai perché tutte quelle cose sarebbero presto scomparse e avrei così potuto dire ai miei figli che io le avevo viste. Sfortunatamente, la profezia non si è ancora avverata».

Nel mondo che aveva in testa il padre non c’erano soldati, non c’erano uniformi, né caserme, né bandiere, né eserciti, né confini. E così è anche per il mondo che immagina il figlio. E difatti, nel mondo ideale di Borges, libertario individualista, lo Stato non esiste, perché è proprio da quello, dallo Stato — e dalle sue declinazioni di Nazione e Patria — che vengono i peggiori mali del XX secolo: il nazifascismo e il comunismo.

«Il nazismo non è altra cosa che l’esarcebazione di un pregiudizio che affligge tutti gli uomini: la certezza della superiorità della propria patria, della propria lingua, della propria religione, del proprio sangue»


Jorge Luis Borges

Del primo, avversato sempre con molta durezza e di contorno a non pochi dei suoi racconti, in un articolo pubblicato su Sur nel 1945 scrive che «Il nazismo non è altra cosa che l’esarcebazione di un pregiudizio che affligge tutti gli uomini: la certezza della superiorità della propria patria, della propria lingua, della propria religione, del proprio sangue».

Nazismo e comunismo, due modi opposti di annullare l’individuo nello Stato, di mettere l’autodeterminazione del singolo sotto lo scacco di uno pseudodestino collettivo, quello di un Popolo, di una Nazione, di una Stirpe, di una Lingua o di un Sangue. Tutte cazzate. Per Borges è il singolo che conta, per Borges l’individuo viene molto prima dello Stato, e, in quella perla che è il saggio Il nostro povero individualismo, contenuto in Altre inquisizioni, lo scrive molto chiaramente: «Le illusione del patriottismo no hanno fine», comincia il nostro, e termina con ancora più precisione: «Il più urgente dei problemi della nostra epoca è la graduale intromissione dello Stato negli atti dell’individuo; nella lotta contro questo male, i cui nomi sono comunismo e nazismo, l’indivdualismo argentino, forse finora inutile o dannoso, troverebbe la sua giustificazione e il suo compito».

Siamo nel 1946. Borges, prima di firmare in calce il saggio da Bueons Aires, descrivendo i suoi sogni sembra descrivere quelli del padre, rivelatigli qualche decennio prima: «Il Nazionalismo vuole ammaliarci con la visione di uno Stato infinitamente molesto; codesta utopia, una volta realizzata sulla terra, avrebbe la virtù provvidenziale di far sì che tutti desiderassero, e finalmente construissero, la sua antitesi». Il suo “povero individualismo”, di origine paradossalmente argentina, quindi nazionale, è già tutto qui, ma riecheggia nei dettagli di tutta la sua opera. Perché è nei dettagli che questa sua strana religione umanista si fa concreta.

È, per esempio, nel sommesso titanismo di un povero Minotauro emarginato, che aspetta segretamente di inscenare la sua parte per far passare Teseo da eroe e, morendo, essere liberato dalla sua terribile prigionia. È nell’eroismo sussurrato del guerriero longobardo Droctulft, che arrivato alle porte di Ravenna, decide, colpito nel profondo da una epifanica bellezza che a stento sa capire, di lasciare il suo esercito e difendere la città che era venuto ad assediare; e ancora, è in quella vertiginosa epica privata del prigioniero senza volto che, recluso per anni in un carcere di pietra, capisce dalle macchie di un giaguaro di essere dio, ma sceglie deliberatamente di dimenticarselo. E si potrebbe continuare percorrendo tutta l’opera borgesiana.

Certo, si può obiettare che l’esacerbazione dell’epica dell’individuo è il primo nutrimento delle tirannie e dei fascismi di ogni epoca, dai novecenteschi Hitler, Stalin e Mussolini, fino a quel Primo Imperatore, Shih Huang Ti, protagonista de La muraglia e i libri, che decise contemporaneamente la costruzione della Grande Muraglia e la distruzione di tutti i libri scritti prima di lui, perché «capiva ch’erano libri sacri, ossia libri che insegnano ciò che insegna l’intero universo o la coscienza di ogni uomo».

Ma tra i due individualismi, la differenza salta agli occhi. Quello del tiranno, un individualismo titanico, egotico e allucinato, teme il tempo perché la sua più grande paura è l’essere ininfluente, marginale, passeggero e quindi, in fondo, dimenticabile. Quello di Borges è tutto il contrario. È un individualismo timido, privato, metafisico. Quello di Borges è un sentimento che non teme il tempo, anzi, lo attende con ansia, quasi lo sfida. Perché Borges non teme l’oblio, lo anela.

È per questo che, nel racconto La scrittura del dio, scritto in prima persona da un uomo che capisce di essere dio, Borges può permettersi il lusso di finire con una frase così, definitiva come una lapide: «Muoia con me il mistero che è scritto nelle tigri. Chi ha scorto l’universo non può non pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell’uomo è lui. Quell’uomo è stato lui e non ora non gl’importa più. Non gl’importa la sorte di quell’altro, non gl’importa la sua azione; poiché ora è nessuno. Per questo non pronuncio la formula, per questo lascio che i giorni mi dimentichino, sdraiato nelle tenebre».

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