Può essere un simbolo di oppressione o una rivendicazione di identità. Un segno della cultura maschilista o di libertà personale. È anche, però, un accessorio del fashion. Il velo, o hijab (che ne è, per i più precisi, solo una variante), ha una storia molto complessa. A seconda del luogo, cambia significato. Oscilla tra la ribellione identitaria (soprattutto nei Paesi occidentali) e l’imposizione tradizionalista (in quelli di matrice musulmana, e non tutti). È lo spauracchio dell’anti-islamismo di destra, che va a incrociarsi con filoni femministi e dà vita a un intreccio di retorica e anatemi senza fine.
C’è anche, però, l’aspetto più modaiolo. Ad esempio donne che, pur dovendo fare i conti con i codici culturali dei Paesi in cui vivono, non rinunciano alle lusinghe dell’estetica. Non sono una novità: il sito Muslim Girl ha pubblicato un video in cui mette in mostra “cento anni di hijab”. Il susseguirsi delle mode influisce anche sul velo prima ancora del dibattito sul suo significato: cambia il modo di allacciarlo, i colori, la disposizione sul capo, le forme.
Come per tutti i vestiti, il velo ha un significato che supera il senso dell’estetica. I cambiamenti che affronta nell’arco di cento anni riflettono anche le diverse situazioni storiche e politiche del mondo della umma (e perciò, data la sua vastità, non può che essere superficiale). Ma è un primo passo.
“I grandi media sono ossessionati dalle donne musulmane almeno dall’11 settembre. Dobbiamo afrontare ogni giorno ondate di violenza estrema. Nello stesso tempo, chissà perché, il velo diventa una tendenza nell’industria della moda”, spiega Amani Al-Khatahtbeh, fondatrice del sito. È un aspetto essenziale della questione: con l’ingresso del velo nelle dinamiche del consumo le cose, forse, sono destinare a cambiare. Ma se questo sia un bene per le battaglie di liberazione (o, al contrario, di rivendicazione) non è ancora dato saperlo.