Ci sono molte cose che invidio alla generazione dei nostri genitori, a parte la possibilità di andare in pensione. Per esempio, invidio la musica che hanno avuto durante la loro gioventù. Invidio il rock e tutto ciò che esso ha rappresentato, prima che il rock perisse, prima che la dirompente ribellione agli standard sociali, di quella società che un’ortodossia ce l’aveva ancora, si acquietasse nel normo-edonismo disorganico che è la cifra caratterizzante del nostro tempo (il fatto, poi, che mia madre ascoltasse Gianni Morandi e non gli Who è un altro discorso).
L’amore per il rock, oggi, per noi, è pura nostalgia. Retro-garde. Feticcio per qualcosa che non ci è appartenuto, che ha lavorato sulla storia quando noi eravamo ancora spermatozoi. Qualcosa di cui non siamo figli, ma nipoti, a volte anche di secondo o terzo grado. Sì, ok. Abbiamo conosciuto il post-rock, l’indie-rock finto-trasandato-
Abbiamo conosciuto il post-rock, l’indie-rock finto-trasandato-sostanzialmente-fighetto dei primi anni duemila, abbiamo saputo che Kurt Cobain s’era suicidato quando eravamo alle elementari, senza nemmeno sapere chi fosse Kurt Cobain
La nostra generazione si è atteggiata a rock, a punk, a dark, senza essere nessuna di queste cose qui. La nostra generazione non ha avuto un polo a cui opporsi, non ha avuto un’ideologia a cui rifarsi, al riparo della quale identificarsi o da sovvertire. L’istanza dirompente della rottura, la forza tracotante della ribellione, il diritto sacrosanto di scandalizzare e di essere sfacciati, e giovani, e liberi, e osceni, noi non l’abbiamo avuto, non siamo nemmeno stati chiamati a conquistarlo o a difenderlo, a investire le nostre energie contro un antagonista culturale obsoleto.
Tutto ci è stato servito su un piatto d’argento. Ci è stata negata, inconsapevolmente, la possibilità di ribaltare le tradizioni (le istituzioni, la famiglia, la religione, la scuola), che prima di noi era stato l’elisir della gioventù, intesa nel senso rock del termine (dal “mother I want to fuck you, father I want to kill you” di Jim Morrison al “we don’t need no education, we don’t need no thought control” dei Pink Floyd). Non c’erano più tradizioni a cui ribellarsi, per noi. Siamo stati privati del formativo diritto giovanile di essere rock.
Noi siamo stati amici dei nostri genitori, abbiamo dialogato con i nostri professori, le nostre occupazioni al liceo sono durate tre ore, abbiamo fatto educazione sessuale a scuola, abbiamo scelto di essere atei prima ancora della pubertà (io mi sono rifiutata di fare la cresima perché per me andare al catechismo era emotivamente più debilitante che andare a fare uno sport di squadra). Abbiamo avuto i politici più dissoluti di Keith Richards, le baby-mignotte, i preti pedofili, la cocaina, le olgettive invece delle groupie, le milf invece delle compassate madri sconvolte dai movimenti pelvici di Elvis. La screanzata gioventù non è più esistita perché la mancanza di creanza ha contagiato tutti in una sorta di anarchia valoriale nella quale il rock ha perso la sua ragione di essere.
O meglio, il rock ha perso quel movente intimo e carnale che aveva, ridotto ai minimi termini, agli istinti animali e naturali che venivano tarpati dalla cultura borghese dominante e che venivano rivendicati dalle rockstar (Sticky Fingers dei Rolling Stones, con un bel pacco in copertina concepito da Andy Warhol, e un titolo che la dice tutta, è emblematico in questo senso). Lo sdoganamento del sesso, la libertà e l’ostentazione, il rigetto delle buone maniere e la definizione stessa di “bad boys” – del cui archetipo gli Stones sono a pieno titolo tra i fondatori – la bocca eloquente di Jagger, gli ammiccamenti, l’ambiguità sessuale, il maschilismo e il culto della virilità (al quale le donne non si sottraevano, perché affermare esplicitamente il desiderio sessuale era un impulso più urgente e naturale, rispetto al culturale femminismo), l’inarrestabile e vitale carica erotica che ha interpretato lo spirito di un tempo e di intere generazioni, si è estinta nell’era di Youporn.
La musica stessa (quella mainstream) si è allontanata dal suo ruolo sociale per diventare un intrattenimento disimpegnato, a uso e consumo di orecchie semplici.
Il rock ha smesso di essere un movimento, uno stile di vita, un modo d’essere, e vivere, e a volte morire. Ha smesso di essere il mezzo di una macro-narrazione storica, perché sono venuti meno i poli di quell’asse lungo il quale le narrazioni per definizione si sviluppano. La musica stessa (quella mainstream) si è allontanata dal suo ruolo sociale per diventare un intrattenimento disimpegnato, a uso e consumo di orecchie semplici.
Ecco, pensavo queste cose (da ottantenne reazionaria) mentre mi aggiravo tra le nove sale allestite per la mostra Exhibitionism, sui Rolling Stones, alla Saatchi Gallery di Londra, che ripercorre gli oltre 50 anni di storia di una delle band più di culto di tutti i tempi, attraverso fotografie, memorabilia, strumenti musicali, costumi, riproduzioni della bettola in cui Jagger, Richards e Jones vivevano agli esordi, e degli studi di registrazione, fino a una proiezione in 3D di un live, con cui il percorso della mostra si conclude, che ti fa definitivamente pensare che vuoi assolutamente vederli dal vivo prima che schiattino (che di fatto è un mistero che siano ancora tra noi, considerata la condotta straviziosa che hanno avuto). Non solo, la mostra, di per sé, lascia anche comprendere quanto dietro il successo della band ci sia una ricca e studiata alchimia di ingredienti, non ultimo il marketing. La scelta del logo (sono stati i primi, ad avere un vero e proprio logo), la spettacolarità dei concerti e la sostanziale capacità di adattarsi, di attraversare le decadi senza finire mai inghiottiti e cagati via dalla storia.
Ecco, pensavo che a noi, cresciuti molto dopo tutto questo, al riparo da quel rock un po’ sudicio e tumultuoso, noi generazione dell’iPod e di Spotify, ecco a noi rimane il feticcio, la t-shirt del concerto, il vinile da mostrare agli amici per far vedere che siamo cool. A noi rimane “sai, sono stata a questa mostra deliziosa”, bevendo un bicchiere di Ribolla.
Per il resto abbiamo i talent show, la musica di nicchia, Marco Mengoni, i Dear Jack e i Modà, il nostro individualismo e il nostro (ingiustamente) usurpato diritto a crescere rock. Che, se ci pensi, quando era ragazzo mio padre in testa alle classifiche c’erano i Pink Floyd e quando ero ragazzina io c’erano i Backstreet’s Boys. Ed era solo l’inizio di una parabola discendente. Di buono c’è che il rock possiamo non dimenticarlo e, con gli strumenti che abbiamo, possiamo ascoltarlo. Possiamo viverlo a posteriori, ma conservarlo. E possiamo provare a veicolarlo a chi oggi pensa che la musica si esaurisca in Fedez. Con tutta la simpatia per Fedez.