«Rimettiamoci a discutere, e a rivendicare i nostri bisogni. E ci salveremo»

Psicodemocrazia è il libro scritto da un Millennial. Contiene una teoria per salvarci da populismi e tentazioni tecnocratiche

«Cosa distingue il chiamare un partito «Forza Italia», da un provvedimento intitolato «La buona Scuola?», si chiede Gabriele Giacomini, assessore all’Innovazione del Comune di Udine e autore del recente volume Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico (Mimesis, 2016). «Niente, entrambi fanno leva sulle emozioni del cittadino per schierarlo a favore di qualcosa. Ma chi si cura poi di capire davvero cosa c’è dietro queste sigle-contenitori?»

La questione, lo diciamo subito, non è nuova. Che si voti più sulla base di impulsi e retaggi culturali, anziché dopo un’attenta riflessione su vantaggi e svantaggi di una proposta politica, è cosa piuttosto nota. Siamo animali emotivi, limitati per natura, e incapaci di muoverci sulla scacchiera delle scelte quotidiane con un semplice calcolo razionale. Un problema non da poco, in una democrazia rappresentativa dove vige la regola “Una testa un voto”.

Ma nuovo può essere il modo in cui la questione viene affrontata, per trovare soluzioni e un barlume di speranza.

Gabriele Giacomini, fresco di dottorato di ricerca all’Università San Raffaele di Milano, membro della bistrattata generazione dei Millennials, utilizza i metodi della scienza cognitiva e sperimentale per portarci in pieno dibattito contemporaneo, e interrogare in modo del tutto nuovo il sistema di rappresentanza per come lo conosciamo. È lecito che individui con capacità limitate di pensiero prendano decisioni che ricadono sul resto dell’intera comunità? E possiamo lasciare il governo delle cose nelle mani di politici, a volte mediocri, spesso astuti, sempre più frequentemente populisti?

Sono le domande che Giacomini si pone. La risposta che si dà è più ottimista di quel che pensiate.

«Compiere scelte del tutto razionali richiede una mente infinita, una capacità di calcolo che noi esseri umani non abbiamo».

Nel tuo libro parti da un presupposto. Elettori e politici hanno capacità cognitive limitate, e la razionalità assoluta, quando si tratta di prendere una decisione, non esiste.
Compiere scelte del tutto razionali richiede una mente infinita, una capacità di calcolo che noi esseri umani non abbiamo. Lo ha spiegato bene la Scienza delle decisioni, con premi Nobel del calibro di Herbert Simon e Daniel Kahneman. Per questo usiamo scorciatoie mentali, cerchiamo modi veloci e poco dispendiosi per trovare una risposta, anche se spesso queste scorciatoie non rispettano del tutto le regole della logica. E così facendo, commettiamo errori. Da Assessore del Comune di Udine vivo in prima persona l’irrazionalità di elettori e politici. E ho sentito il bisogno di andare a fondo nella questione.

E hai scelto di affrontare il problema con un metodo del tutto nuovo…
Ho scelto di farlo in un modo innovativo. Anziché analizzare il comportamento finale delle persone (limitandomi ad un’analisi dell’esito elettorale, delle decisioni prese da cittadini chiamati al voto), ho concentrato l’attenzione su quello che sta alla base della decisione, cioè il modo in cui le informazioni sono recepite e rielaborate. Perché è qui, nel momento in cui ciascuno di noi rielabora le informazioni catturate qua e là, che si compie il duello tra razionalità e irrazionalità. È un approccio di tipo cognitivista ed è rubato alla psicologia. Si parte dall’idea che ogni spiegazione del comportamento umano deve tenere conto di come gli individui percepiscono, elaborano e rappresentano la realtà.

«È nel momento in cui rielaboriamo le informazioni catturate qua e là, che si compie il duello tra razionalità e irrazionalità».

Nel libro citi diversi esperimenti fatti in laboratorio con cui si prova ad entrare nella testa di un elettore, per vedere come ragiona. Ci fai un esempio?
Si, ho analizzato studi empirici ed esperimenti di laboratorio fatti nell’ambito delle scienze delle decisioni, dal secondo dopoguerra in poi. Questi studi mettono in luce gli “errori di calcolo” in cui incorriamo quando ci viene chiesto di analizzare una situazione e prendere una decisione. In uno di essi, a un gruppo di soggetti vene comunicato che ci sono due gruppi di migranti, di diversa etnia, il gruppo A e il gruppo B. Entrambi i gruppi sono interessati da criminalità. Ci sono 100 mila euro per migliorare la situazione e si chiede ai cittadini come agire. Bene: il modo in cui i cittadini decidono di investire quei soldi dipende tutto da come il problema è presentato. Se si dice che l’1% dei membri di A è disonesto, e che il 3% dei membri di B è disonesto, i soggetti decidono di investire gran parte dei soldi sul gruppo B, perché percepiscono il gruppo B come tre volte più pericoloso (3% è il triplo di 1%). Se invece agli stessi soggetti si dice: “Il 99% dei membri di A è onesto, mentre il 97% dei membri di B è onesto” (cioè la stessa identica cosa di prima, detta solo in maniera diversa), la percezione che i soggetti hanno è che il livello di criminalità nei due gruppi sia quasi identico, e decidono di investire 50% dei fondi in un gruppo e 50% nell’altro. È l’errore del «frame», della cornice in cui la realtà viene racchiusa, o, se preferite, del modo in cui le cose sono raccontate. Si tratta di uno dei principali meccanismi mentali su cui fanno leva testate giornalistiche e sigle televisive, ma anche i politici, quando influenzano le valutazioni del loro pubblico.

«Il frame, la cornice in cui la realtà viene racchiusa, è uno dei principali meccanismi su cui fanno leba media e politici»

Nel tuo libro affermi che che il governo dei tecnici, cioè di persone con capacità che si potrebbe pensare superiori alla media, non sia una soluzione efficace. Perché?
Una volta constatati i limiti delle persone in democrazia, verrebbe la tentazione di affidare il governo a tecnici. Una tentazione anche europea: pensate alla celebre Troika. Ma nelle migliori delle ipotesi è una pseudo soluzione. Perché nessuno è immune agli errori di calcolo, alle scorciatoie cui ricorriamo mentre cerchiamo di elaborare questioni complesse. Nemmeno le autorità pubbliche, anche se sono esperte, anche se si tratta di tecnocrati: come altro si spiega il problema degli esodati, creato da un ministro del Lavoro, Elsa Fornero, docente universitario di economia tra i più preparati ed esperti in materia, oltre che componente di un governo tecnico?

Dove sta la soluzione allora?
Tra gli studi sperimentali che prendo in considerazione, alcuni mostrano che quando si affronta un problema logico in gruppo, i compiti di analisi e calcolo sono superati con meno errori rispetto a quando si affrontano da soli, senza confrontarsi. Nel confronto con gli altri, gli individui riescono a prendere in considerazione e a tenere conto di problemi a cui altrimenti non avrebbero pensato. E questo accade perché nel dialogo ognuno fa sentire la sua voce, il suo punto di vista, i suoi problemi. Forse non avremmo avuto il problema degli esodati se tra le persone consultate dalla squadra di Elsa Fornero ci fosse stato qualcuno che rischiava di finire, appunto, esodato. La via maestra, quindi, è quella del confronto aperto e pluralista, del dialogo. E la democrazia, con tutti i suoi difetti, resta pur sempre il sistema politico che garantisce più di altri che questo prezioso confronto si realizzi. È stato Habermas a teorizzare la democrazia dialogica. Ma secondo lui il confronto dovrebbe portare a forme di dialogo sempre razionali. Il metodo cognitivo che ho scelto, invece, mostra che non si può sfuggire alla limitatezza delle nostre menti. Anche attraverso il dialogo avremo risultati imperfetti. Ma sempre più completi di quelli ottenuti ragionando in una torre d’avorio, da soli, nel chiuso di stanze e palazzi.

«Quando si affronta un problema logico in gruppo, i compiti di analisi e calcolo sono superati con meno errori»

Cosa pensi allora delle piazze contemporanee, da Occupy Wall Street al nuovo Nuit Debout francese? Sono un valido strumento per alimentare questo dialogo?
Il nostro sistema politico sta scivolando verso il leaderismo e strumenti come la tv prima e i social network dopo hanno incentivato l’affermarsi di leader decisionisti, visti come la soluzione a tutti i mali. Si demanda e ci si disinteressa. Ma in questo modo la qualità della leadership stessa si abbassa. L’azione di un capo di governo è tanto più di qualità quanto più riesce a fare tesoro di diverse voci. Ogni punto di vista è prezioso per costruire delle buone politiche. La raccolta di questi punti di vista può avvenire solo con democrazie ricche di luoghi di incontro e discussione, a tutti i livelli, non solo istituzionale. Se oggi non ci sono più sindacati, sigle ed organizzazioni capaci di raccogliere queste istanze e presentarle alle istituzioni, ben vengano allora le piazze in cui ciascuno si fa promotore della sua voce. Sta poi alla politica il compito di mediare tra i vari interessi che dalla piazza emergono. Il pericolo non è affatto nei movimenti come Indignados, Occupy Wall Street e il recente Nuit Debout. È nella disaffezione, nella mancanza di partecipazione al ragionamento collettivo.

«Dobbiamo recuperare un ruolo attivo, dobbiamo prendere parte al dialogo, rivendicare le nostre esigenze»

Qual è lo scopo ultimo di un libro come Psicodemocrazia?
Renderci più consapevoli del limite di cui siamo portatori e delle dinamiche cognitive di cui cadiamo vittime. Per riscattarci da questo dobbiamo recuperare un ruolo attivo, dobbiamo prendere parte al dialogo, rivendicare le nostre esigenze. Dobbiamo creare e nutrire spazi di dialogo. Solo così le decisioni della democrazia di cui facciamo parte potranno diventare migliori.

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