Roma l’ingovernabile, la missione senza speranza di Virginia Raggi

Da Matilde Serao ne “La conquista di Roma” gli scrittori hanno sempre capito l’Urbe più dei politici. Ora tocca a Virginia Raggi: riuscirà a cambiare la città dove “tutto ciò che arriva finisce” e “che sa tutto perché tutto ha venduto”?

Aurelio Picca, scrittore (nato a Velletri, Castelli Romani), poche ore prima del ballottaggio, sul suo profilo Facebook: «Roma l’ho amata quando era plebea e non miserabile. Una vergine nera. Barbara. L’ho amata prima di Nicolini e Arbore. Quando nessuno voleva cambiarla. Perché non era capitale di niente. Era solo la femmina del mondo infame». I romani, però, Roma l’hanno consegnata a Virginia Raggi, accettando il suo invito: «Coraggio, insieme cambiamo tutto». Roma ha rottamato Roma. Imbiancato la vergine nera. Dimesso l’impermeabile. Archiviato l’indulgenza dell’ingovernabilità. Rinunciato a crogiolarsi nella grande bellezza. Roma, la Waterloo del cambiamento, vuole cambiare e, soprattutto, farsi cambiare. La retorica del fare piazza pulita ha surclassato quella dell’inespugnabilità: insieme al dato politico, da leggere, c’è pure quello, antropologico, dell’ auto-rigetto. I romani, per la prima volta, non si raccontano che “la sola cosa bella di Milano è il treno per Roma”: alcuni, a Milano, si sono trasferiti, felicemente.

«Il vento sta cambiando», ha detto Virginia Raggi nel suo primo discorso da sindaca e se sarà ponentino è troppo presto per dirlo, ma altrettanto presto il Movimento 5 Stelle sembra aver dimenticato che Roma è la città dove «tutto ciò che arriva – idee, fedi, ideologie – finisce, diventa rovine e archeologia, si devitalizza poco a poco e però non smette di finire» (Filippo La Porta, Roma è una bugia, Laterza, 2014). Dopo il «complotto per farci vincere a Roma» di Paola Taverna, i grillini hanno dovuto rimuovere che l’Urbe non si dà a nessuno: non c’era altro modo, se si voleva avanzare – come s’è fatto – spavaldamente, incarnando la rivalsa, la piazza pulita che i romani andavano chiedendo da tempo. «E tu splendi, invece»: lo slogan pasoliniano di Giachetti traboccava di quel senso di continuità cui i romani, stavolta, hanno preferito l’esorcismo, anche da loro stessi.

Roma, la Waterloo del cambiamento, vuole cambiare e, soprattutto, farsi cambiare. La retorica del fare piazza pulita ha surclassato quella dell’inespugnabilità: insieme al dato politico, da leggere, c’è pure quello, antropologico, dell’ auto-rigetto. I romani, per la prima volta, non si raccontano che “la sola cosa bella di Milano è il treno per Roma”: alcuni, a Milano, si sono trasferiti, felicemente

Quando arriva in parlamento, il protagonista di La conquista di Roma, Francesco Sangiorgio, deputato per Tito (Lucania interna), è giovane, incontaminato, serio, selvaggio, consapevole che Roma non crede, ma inghiotte: per questo si rende sin da subito un boccone indigesto. Tullio Giustini, onorevole toscano di lungo corso, gli spiega che «Roma ha una virtù quasi divina: l’indifferenza. La serenità imperturbabile, l’anima sorda, la donna che non sa amare. Sa tutto perché tutto ha veduto» e che, quindi, non resta che conquistarla, «anche per un anno, bisogna che qualcuno la prenda e vendichi tutti i morti, i caduti, i deboli che hanno toccato le sue mura senza poterla conquistare». Questo qualcuno, secondo Giustini, deve avere il cuore di bronzo, una volontà inflessibile e rigida, nessun legame: Sangiorgio risponde «sono io». La sua prima mozione fa cadere il ministro dell’Interno. Gli viene chiesto di entrare nel rimpasto ma lui rifiuta, va in Basilicata, raccoglie nuove istanze, torna ancora a Roma. Gira per feste, sopporta i riti mondani, lava le provocazioni con un duello, chiacchiera con le signore di Roma che decretano «quest’anno in letteratura va di moda l’Abruzzo e in politica la Basilicata» e non si rende conto che equivale a un’investitura (Mattia Feltri, commentando le elezioni del 5 giugno, ha scritto che Roma si è scoperta femminista: ingenuo, per una città dove le donne sono state ammiraglie sempre, da Poppea a Maria Angiolillo, del sottopotere, cioè il potere più forte di tutti). Sembra che abbia preso Roma dal tallone.

È il 1885 quando Matilde Serao pubblica questo romanzo splendido (ripubblicato lo scorso anno da Elliot), drammaticamente assente dalla top five delle letture di Giachetti e Raggi. Nello stesso anno, lei che veniva da Napoli, aveva fondato, insieme al marito Edoardo Scarfoglio, Il Corriere di Roma, che però naufragò presto dopo soli due anni. Francesco Sangiorgio, il basilisco, raccoglie quello che la Serao ha visto: la Roma del 1885 assomiglia tantissimo a quella appena ereditata da Virginia Raggi. «Nei quartieri nuovi, famiglie, impiegati, servi, cani e gattini, disarmati e affamati, guardano Roma odiandola, perché non la possono capire, perché la trovano esorbitante e si sfogano parlando male del governo. I romani, i veri romani della Regola e del Popolo, del rione Monti e del rione Trevi, che si vantano dall’acqua Marcia e fanno pullulare gli scarafaggi nelle loro vecchie case e sono arguti, scettici, indifferenti e laboriosi». E ancora, «i cretini e gli sciocchi si davano convegno, discutevano, mettendo insieme la mediocrità e l’invidia; si ordivano piccoli complotti parziali»: il delicato, complesso congegno che allora era la città, è l’ordigno oggi esploso nelle mani del Pd.

La Roma del 1885, raccontata da Matilde Serao in La conquista di Roma, assomiglia tantissimo a quella appena ereditata da Virginia Raggi. «Nei quartieri nuovi, famiglie, impiegati, servi, cani e gattini, disarmati e affamati, guardano Roma odiandola, perché non la possono capire, perché la trovano esorbitante e si sfogano parlando male del governo»

Francesco Sangiorgio, però, fallisce: s’innamora di Angelica, moglie del nuovo ministro dell’interno (un uomo ovviamente molto vecchio), bellissima, audace, la donna che non sa amare perché non appartiene a nessuno, che prima si finge compassata e poi l’illude, è amica, civetta, telespettatrice della consunzione del ragazzo, che smette di rispondere alle lettere dei suoi elettori, di andare alla Camera per aspettare le sue visite. Lei compare ogni tanto, per tenerlo a sé mentre gli dice di scostarsi da lei, fino a quando non gli manda il marito, il ministro in persona, a dirgli che la sbandata è perdonata, ma Angelica appartiene alle signore della Camera e della diplomazia, ai festini, alla politica, è l’indomita domata.

«Roma, in verità, l’aveva vinto», scrive Serao alla fine del romanzo, mentre descrive il basilisco che, dal treno, guarda la città «nera, alta, immensa» e le dice addio. Come aveva potuto, Sangiorgio, l’imperturbabile lucano venuto per rinnovare, cedere al cuore, alla corruzione dell’amore? Perché Roma lo aveva illuso e lui aveva scambiato i suoi occhi inteneriti per occhi innamorati e, per questo, trovandosi presto politicamente isolato e nuovamente straniero, aveva ricercato quello sguardo d’amore in una donna, sbagliando ancora, perché offrendogli Angelica, facendogliela solo annusare e poi sbattendogli in faccia che mai sarebbe stata sua, Roma si era solo tolta il peso di annientarlo, quel povero fesso basilisco, lasciando che fosse lui stesso a farlo.

«Roma le sopravviverà», ha scritto, a poche ore dallo spoglio, Gaja Lombardi Cenciarelli, scrittrice e cronista del rantolo romano (leggere il suo delizioso ROMA tutto maiuscolo come sulle vecchie targhe), quello che Aurelio Picca già non sente più. Può darsi. Di certo, Virginia Raggi dovrà ricordare che Roma le sarà ostile, se lei non l’amerà prima dei romani ma mai a prescindere da loro.

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